giovedì 15 dicembre 2011

Pietre Vive a Napoli - 17 dicembre 2011


Prosegue l'impegno del gruppo Pietre Vive presso la Chiesa del Gesù Nuovo di Napoli

Sabato 17 dicembre 2011, dalle ore 15 alle ore 18, il gruppo Pietre Vive di Napoli
vi attende per accompagnarvi attraverso visite guidate alla scoperta del messaggio
spirituale della chiesa del Gesù Nuovo. Non mancate!


lunedì 12 dicembre 2011

Ma voi gaudete?


Cari amici, oggi la Chiesa celebra la III domenica di Avvento detta “Gaudete”. E’ una domenica che vuole porre in evidenza un sentimento specifico: il gaudio. Che cos’è il gaudium? E’ una forma di piacere, di godimento che si riferisce pienamente anche alla dimensione dello spirito, che coinvolge lo spirito in maniera profonda, radicale. E’ il gaudio.

Per questo il salmo responsoriale di oggi non è un salmo ma è il Magnificat. Ed ecco un altro termine strano: il verbo magnificare, in greco megalyno che significa allungare e allargare, ingrandire. Il «magnificare» di Maria non è un semplice tessere lodi. Forse è vicino all’uso inglese di magnification, cioè «ingrandimento». Maria sta dicendo l’indicibile: «l’anima mia ingrandisce il Signore»! Nessun essere umano più «ingrandire» Dio, che come scrive sant’Anselmo è l’essere id quo maius cogitari nequit, «del quale non si può pensare il maggiore». Maria invece compie interiormente il gesto di guardare con la lente di ingrandimento Dio che le si è fatto vicino e sente dentro di sé che Dio è pazzescamente grande e la sua anima esulta (agalliao) che il latino traduce con valde gaudeo. Ed ecco daccapo il gaudio.

Ma voi gaudete? Quando sentite che il vostro spirito esulta, prova gaudio? Conoscete questa esperienza che è anticipo di paradiso, intuizione del nostro reale destino eterno?

Maria dice di sì e dice anche perché è «gaudente»: perché il Signore ha guardato all’umiltà della sua serva. Maria si è sentita guardata. E si è sentita guardata non perché bella, attraente, interessante o importante. Si è sentita guardata dall’alto (epi-blepo) proprio nella sua umiltà, termine che in realtà (tapeinosis) significa «bassezza» (da cui in italiano: me tapino!).

Se siamo importanti, influenti, belli è ovvio che abbiano gli occhi addosso. E’ persino fastidioso a volte. Ma se siamo tapini no. Riflettete: chi sono i nostri veri amici? Abbiamo veri amici? No, non sono quelli con i quali ci divertiamo o facciamo chiacchiere interessanti. I nostri veri amici sono coloro che ci conoscono nei nostri aspetti peggiori e ci vogliono bene lo stesso.

Ieri in un suo tweet il cardinale Scola scriveva: «Quando si è autenticamente amati il nostro essere si dilata e si muove più liberamente». Com’è vero!

Maria ingrandisce Dio perché Egli ha guardato dall’alto la sua bassezza. E’ tutto un gioco di sguardi in questo versetto. Ed è un capovolgimento di ottica: L’occhio di Dio, pur essendo distante viene ingrandito per il fatto che si è allungato a tal punto da vedere Maria molto in basso.

Ed è tutto qui il mistero del Natale, amici miei! Il bambino che nasce è Dio che si è catapultato dai cieli sulla terra non come il sovrano del mondo, ma divenendo simile agli uomini nel grembo della bassezza di Maria. In quel puntino.

Questo gesto è un ribaltamento dello sguardo, dicevo. Ciò che è piccolo diventa enorme, cioè che è distante diventa vicinissimo. Dio diventa carne della mia carne, ossa delle mie ossa, sangue del mio sangue. Da qui l’esultanza di Maria, la gioia piena e il lieto annunzio cantati da Isaia, la letizia di cui parla San Paolo.

E questo ribaltamento non lascia le cose come stanno. Isaia lo aveva profetizzato dicendo chi sono i tapini: Isaia così parla di: miseri, cuori spezzati, schiavi, prigionieri. Tradurre tapeinosis con «umiltà» rischia di far perdere la forza di questa parole.

Ciascuno di noi vive povertà, bassezze. Ciascuno di noi ha vissuto o vive «frane» interiori o esteriori che lo portano a scendere dall’alto al basso. A volte persino con fragore. Vi siete mai sentiti «a terra»? Manzoni nel suo Inno sacro “Il Natale” esprime questa condizione con grande efficacia:

Qual masso che dal vertice / Di lunga erta montana, / Abbandonato all'impeto / Di rumorosa frana, / Per lo scheggiato calle / Precipitando a valle, / Batte sul fondo e sta;  / Là dove cadde, immobile / Giace in sua lenta mole; / Né, per mutar di secoli, / Fia che riveda il sole / Della sua cima antica, / Se una virtude amica / In alto nol trarrà.

Ma in questo tempo non siamo solamente noi a essere come un masso caduto dall’alto in basso. Sembra essere la nostra società, la nostra Italia, la nostra europa ad essere in crisi. Chi darà «gaudio» al nostro mondo? E chi sono oggi i più «tapini»?

San Paolo nella sua Lettera ai Romani sembra essere consapevole del fatto che il mondo è sempre radicalmente in «crisi» e scrive di una «ardente aspettativa» per cui «tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi». Questa immagine così natalizia del parto ci induce a vedere il mondo in tensione di attesa, per cui «speriamo quello che non vediamo» (Rm 8, 25). Celebrare il Natale significa partecipare di questa attesa piena di luci e ombre, delusioni e speranze rinnovate.
Celebrare il Natale significa partecipare alla crisi e alla speranza del mondo.

Il Natale è la festa di un’altra visione del mondo, una visione fondata su valori che non sono quelli che hanno messo in crisi l’economia, e che aiutano a vedere che c’è un cielo aperto sulle nostre teste. L’immagine dei bambino Gesù che nasce a Betlemme non può essere confinata in una devozione calda ma chiusa in stessa. Essa richiama immagini di oscurità nelle quali brilla una luce. E questa visione è quella del manifesto del cristianesimo, le «beatitudini», cioè le professioni di «gaudio»:

«Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete. Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell'uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo». (Lc 6, 20-23).

Che cosa, oggi, tiene accese le stelle sul nostro cielo, sul cielo dell’Italia, che nel Natale possiamo immaginare tutta come un presepe?
Sono ancora impresse nella mente le immagini dell’alluvione in Liguria. Ma accanto a queste ci sono rimaste impresse quelle dei cosiddetti «angeli del fango». La «bomba d’acqua» ha fatto esplodere la solidarietà. Sono quei giovani che tengono accese le stelle.  Lo hanno dimostrato gli «angeli del fango», e lo dimostrano i tantissimi giovani impegnati nel mondo delle associazioni e del volontariato, così come quei giovani di talento che stanno dando il loro contributo all’innovazione.

La complessa situazione che stiamo vivendo rivela, fra l’altro, una crisi di «generatività». Il nostro è un Paese dove le persone anziane sono tentate di entrare in competizione con i giovani. Chi ha lunga esperienza cerca di perdere o nascondere la propria saggezza, oggi considerata un disvalore, davanti alla «prestanza». L’anziano, invece di orientare, formare, guidare, preferisce tenere in mano il potere, senza lasciare spazio ai più giovani che fremono.

Essi, a loro volta, frustrati per l’impossibilità di emergere, e considerati tali fino all’imbarazzante soglia dei quarant’anni e più, rischiano di reclamare il loro posto nella società più per desiderio di contare qualcosa più che per avere davvero qualcosa da dire. Si è perso il discernimento tra saggezza e prestanza. Le generazioni entrano in competizione tra di loro. Così la società diventa sterile, incapace di generare. La società attuale ama la giovinezza come mito, ma non ama i giovani, i quali diventano a loro volta indignados.

Il Natale allora è un momento favorevole per ripensare la crisi di generatività dei nostri giorni. Il Figlio, «generato dalla stessa sostanza del Padre», è divenuto simile agli uomini (cfr Fil 2,7). E’ stato partorito da Maria, allevato così da crescere e fortificarsi in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini (cfrLc 2, 40.52) fino all’inizio di quella che noi chiamiamo significativamente «vita pubblica». Oggi molti giovani vivono una vita pubblica ancora nel «nascondimento» dovuto a una mancanza di ruolo.

Questo Natale, che celebreremo vivendo un tempo delicato per il nostro Paese, sia per tutti gli uomini di buona volontà, e per noi in particolare, un momento favorevole per riflettere sulla capacità generativa della nostra società (e di ciascuno di noi qui) nei confronti dei più giovani e di coloro che oggi vengono al mondo.

Sia la luce della stella cometa a guidare il cammino degli uomini, la loro fantasia, i loro sogni, per insegnarci a non tenere la testa bassa, nemmeno quando è buio.

Fonte: p. Antonio Spadaro SJ, direttore de "La Civiltà Cattolica"

domenica 11 dicembre 2011

Buon avvento...

Un punto è l'embrione
un secolo di vita
che ascolta l'universo
la memoria del mondo
fin dalla creazione. L'uomo che nascerà
è un'eco del Signore
e sente palpitare in sé tutte le stelle.
Alda Merini

venerdì 2 dicembre 2011

Riparte Pietre Vive!



Appuntamento sabato 3 dicembre 2011 per riprendere l'attività Pietre Vive!

Preparazione al Natale

Il poeta tedesco Rilke (1875-1826) abitò per un certo periodo a Parigi. Per andare all’Università percorreva ogni giorno, in compagnia di una sua amica francese, una strada molto frequentata. Un angolo di questa via era permanentemente occupato da una mendicante che chiedeva l’elemosina ai passanti. La donna sedeva sempre allo stesso posto, immobile come una statua, con la mano tesa e gli occhi fissi al suolo. Rilke non le dava mai nulla, mentre la sua compagna le donava spesso qualche moneta. Un giorno la giovane francese, meravigliata domandò al poeta: “Ma perché non dai mai nulla a quella poveretta?”. Dovremmo regalare qualcosa al suo cuore, non alle sue mani, rispose il poeta. Il giorno dopo, Rilke arrivò con una splendida rosa appena sbocciata, la depose nella mano della mendicante e fece l’atto di andarsene. Allora accadde qualcosa d’inatteso: la mendicante alzò gli occhi, guardò il poeta, si sollevò a stento da terra, prese la mano dell’uomo e la baciò. Poi se ne andò stringendo la rosa al seno. Per una intera settimana nessuno la vide di più. Ma otto giorni dopo, la mendicante era di nuovo seduta nel solito angolo della via. Silenziosa e immobile come sempre. “Di che cosa avrà vissuto in tutti questi giorni in cui non ha ricevuto nulla?”, chiese la giovane francese. “Della rosa”, rispose il poeta. “Esiste un solo problema, uno solo sulla terra. Come ridare all’umanità un significato spirituale, suscitare un’inquietudine dello spirito. E’ necessario che l’umanità venga irrorata dall’alto e scenda su di lei qualcosa che assomigli a un canto gregoriano. Vedete, non si può continuare a vivere occupandosi soltanto di frigoriferi, politica, bilanci e parole crociate. Non è possibile andare avanti così”, ha scritto Antoin de Saint-Exupéry. ********* Attenzione! I preparativi alla festa del Natale potrebbero distrarci da una seria preparazione a questa ricorrenza. Francesco Piras s.j. http://www.scuoladimeditazione.eu/meditazioni/meditazioni.php?id=257

martedì 22 novembre 2011

Costruttori di comunita'

Il modo con cui comunichiamo influenza la nostra capacita' di stabilire relazioni. Tuttavia per migliorare il nostro essere "costruttori di relazioni", occorre avviare un percorso individuale e comune all’interno del quale ciascuno si interroga sulla propria capacità di generare relazioni di qualità. Una comunità è il luogo dove è possibile costruire relazioni profonde. Il desiderio di comunità va però ricercato dentro di noi...

Domenica 4 Dicembre ore 16.30

Umberto ed Elpidia


lunedì 17 ottobre 2011

Animazione Giovanile...si parte!!!

Hai tra i 14 e i 16 anni??

Ti piace confrontarti e stare insieme ai tuoi coetanei dal vivo e non solo tramite lo schermo di un computer o il touch di un telefonino??

Hai voglia di conoscere altre persone??

Allora sei invitato a partecipare al Gruppo di Animazione Giovanile della CVX Oscar Romero di Sant'Arpino!

Vieni Martedì 8 Novembre alle 19.00 
presso la nostra sede in Corso Atellano n°19






venerdì 7 ottobre 2011

Tu e Dio


Eccoci, Signore, davanti a te. Col fiato grosso, dopo aver tanto camminato. Ma se ci sentiamo sfiniti, non è perché abbiamo percorso un lungo tragitto, o abbiamo coperto chi sa quali interminabili rettilinei. È perché, purtroppo, molti passi, li abbiamo consumati sulle viottole nostre, e non sulle tue: seguendo i tracciati involuti della nostra caparbietà faccendiera, e non le indicazioni della tua Parola; confidando sulla riuscita delle nostre estenuanti manovre, e non sui moduli semplici dell’abbandono fiducioso in te. Forse mai, come in questo crepuscolo dell’anno, sentiamo nostre le parole di Pietro: “Abbiamo faticato tutta la notte, e non abbiamo preso nulla”.
Ad ogni modo, vogliamo ringraziarti ugualmente. Perché, facendoci contemplare la povertà del raccolto, ci aiuti a capire che senza di te non possiamo far nulla. Ci agitiamo soltanto.
Grazie, perché obbligandoci a prendere atto Dei nostri bilanci deficitarii, ci fai comprendere che, se non sei tu che costruisci la casa, invano vi faticano i costruttori. E che, se tu non custodisci la città, invano veglia il custode. E che alzarsi di buon mattino, come facciamo noi, o andare tardi a riposare per assolvere ai mille impegni giornalieri, o mangiare pane di sudore, come ci succede ormai spesso, non è un investimento redditizio se ci manchi tu. Il Salmo 127, avvertendoci che, il pane, tu ai tuoi amici lo dai nel sonno, ci rivela la più incredibile legge economica, che lega il minimo sforzo al massimo rendimento. Ma bisogna esserti amici. Bisogna godere della tua comunione. Bisogna vivere una vita interiore profonda. Se no, il nostro è solo un tragico sussulto di smanie operative, forse anche intelligenti, ma assolutamente sterili sul piano spirituale. Grazie, Signore, perché, se ci fai sperimentare la povertà della mietitura e ci fai vivere con dolore il tempo delle vacche magre, tu dimostri di volerci veramente bene, poiché ci distogli dalle nostre presunzioni corrose dal tarlo dell’efficientismo, raffreni i nostri desideri di onnipotenza, e non ci esponi al ridicolo di fronte alla storia: anzi, di fronte alla cronaca. Ma ci sono altri motivi, Signore, che, al termine dell’anno, esigono il nostro rendimento di grazie. Grazie, perché ci conservi nel tuo amore. Perché ancora non ti è venuto il voltastomaco per i nostri peccati. Perché continui ad aver fiducia in noi, pur vedendo che tantissime altre persone ti darebbero forse ben diverse soddisfazioni. Grazie, perché non solo ci sopporti, ma ci dai ad intendere che non sai fare a meno di noi. Perché ci infondi il coraggio di celebrare i santi misteri, anche quando la coscienza della nostra miseria ci fa sentire delle nullità e ci fa sprofondare nella vergogna. Grazie, perché ci sai mettere sulla bocca le parole giuste, anche quando il nostro cuore è lontano da te. Perché adoperi infinite tenerezze, preservandoci da impietosi rossori, e non facendoci mancare il rispetto dei fedeli, la comprensione dei collaboratori, la fiducia dei poveri. Grazie, perché continui a custodirci gelosamente, anzi, a nasconderci , come fa la madre con i figli più discoli. Perché sei un amico veramente unico, e ti sei lasciato così sedurre dall’amore che ci porti, che non ti regge l’animo di smascherarci dinanzi alla gente, e non fai venir meno agli occhi degli uomini i motivi per i quali, nonostante tutto, continuiamo a essere reverendi . Grazie, Signore, perché non finisci di scommettere su di noi. Perché non ci avvilisci per le nostre inettitudini. Perché, al tuo sguardo, non c’è bancarotta che tenga. Perché, a dispetto delle letture deficitarie delle nostre contabilità, non ci fai disperare. Anzi, ci metti nell’anima un così vivo desiderio di ricupero, che già vediamo il nuovo anno come spazio della Speranza e tempo propizio per sanare i nostri dissesti. Spogliaci, Signore, d’ogni ombra di arroganza. Rivestici dei panni della misericordia e della dolcezza Donaci un futuro gravido di grazia e di luce E di incontenibile amore per la vita. Aiutaci a spendere per te Tutto quello che abbiamo e che siamo. E la Vergine tua madre ci intenerisca il cuore. Fino alle lacrime.

Don Tonino Bello

lunedì 26 settembre 2011

Sulle tracce di Emmaus

Nel giro di una settimana a Gerusalemme è capitato di tutto. Gesù è stato accolto in maniera trionfale, acclamato come un re; ha trasmesso il comandamento dell’amore; durante la cena per la Pasqua ha rivelato il valore del servizio con la lavanda dei piedi, ha garantito la sua presenza reale spezzando un pane e versando del vino; è stato arrestato; ha sopportato tradimenti e rinnegamenti; è stato arrestato, processato, condannato a morte, trafitto su una croce, sepolto… E basta. Tutto è finito. Nel giro di una settimana sono sfumati progetti, speranze e illusioni tessuti pazientemente in tre anni di sequela fedele e attenta. Tutte le cose che abbiamo costruito, per le quali ci siamo spesi, per le quali abbiamo sudato, lottato e pianto, per le quali abbiamo anche rischiato, ci siamo esposti, sono definitivamente sigillate e oscurate dietro quella grande pietra rotolata contro l’entrata di quel sepolcro nuovo, scavato nella roccia. Sembra di sentirli: “…che delusione… e chi se l’aspettava… lasciamo perdere, andiamo via… Basta, torniamo ad Emmaus!”. Sono i discorsi di due persone che, dopo aver vissuto una esperienza affascinante ed esaltante con Gesù, si ritrovano soli, abbandonati, sconfitti e decidono di abbandonare il “cuore” di questa vicenda per dirigersi verso il definitivo ritorno alla realtà di prima, al quotidiano di ogni giorno. A questo punto, se non conoscessimo l’esito della vicenda e se dovessimo completare la storia con i nostri sistemi, è facile intuire le reazioni: “…e fate come volete… pazienza… peggio per voi… siete grandi e vaccinati... arrangiatevi…”. C’è qualcuno che non la pensa così. “…Gesù in persona si accostò e camminava con loro” (v. 15b) e non perché “è togo” e gli piace mettersi in mostra e affermare la sua supremazia, tant’è che “…i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo” (v. 16). È lui che prende l’iniziativa e soprattutto cammina al loro fianco, si fa compagno di quella strada, di quella determinata fase del loro cammino. Certamente – e ce lo rivela l’originale del testo greco – il loro discutere e discorrere era visibilmente animato, tanto che è facile per lo sconosciuto permettersi di domandare loro: “Ma di che cosa state parlando così calorosamente?”. Anche qui, con il nostro stile poco aperto al dialogo, verrebbe voglia di sostituirci alla risposta dei due discepoli: “Ma cosa vuoi? Fatti i fatti tuoi!”. E forse, dopo che essi rispondono: “Di quanto è capitato a Gerusalemme in questi giorni” ed egli incalza: “E che cosa è successo?”, non verrebbe voglia di rispondere: “Ma scusa, dove vivi? Dove hai la testa?”. Invece è talmente forte la ferita che sentono dentro, la sensazione di essere stati ingannati, che essi sentono il bisogno di sfogarsi. D’altronde chiunque avrebbe convenuto con loro sull’assurdità della vicenda, quindi non esitano a raccontare e esprimere tutta la loro delusione. E questo si coglie dai verbi che utilizzano: fu profeta grande… speravamo fosse lui a liberare Israele… I discepoli avevano i loro progetti e le loro speranze; certamente, anche sulla scia delle idee promosse dagli zeloti, ai quali era legato uno di loro, che ritenevano che la liberazione dovesse esprimersi con atti militari e tendere alla ricerca della prosperità economica e del benessere materiale. Invece Gesù non solo è condannato a morte, ma alla morte in croce, infamante, riservata ai malfattori. Questo non rientra nei loro progetti. Anche noi abbiamo desideri, progetti, speranze cui ci aggrappiamo con tanta passione, senza considerare che alcuni accadimenti possono rivelarci che esiste un progetto di Dio, diverso dal nostro, che naturalmente non possiamo prevedere o preventivare, più grande dei nostri pensieri. Per questo non riusciamo a pensare che possa essere più bello, più utile, più entusiasmante per noi e più capace di fare fiato e speranza. Certo, non è facile aprirsi e abbandonarsi al progetto di Dio e al mistero che lo accompagna. Ma per cosa pensate che Gesù “…si accosta e cammina con noi”? Non certo per una sterile comprensione affettiva o per assecondare delusioni o incomprensioni. Egli è la via, la verità e la vita. Per questo cammina con noi: per condurci sulla via; per questo ci spiega le scritture: per portarci alla verità; per questo spezza il pane: per donarci la vita. 

Carlo Maria Martini, Partenza da Emmaus, Centro Ambrosiano di Documentazione e Studi Religiosi

domenica 28 agosto 2011

Che cercate ?

"Ma verso dove ti incammini nel corso della tua vita? Ogni giorno, ogni ora tu fai, pensi, dici sempre qualcosa. A quale scopo? La verità è che tu aspiri a qualche cosa, più vicina o più lontana; e tu tendi lì, perché speri che questa cosa ti porti un briciolo di felicità. Questa aspirazione alla felicità è tanto naturale che non esiste uomo al mondo che non desideri la felicità; per questo soltanto gli uomini ammassano denaro, cercano gloria e piaceri: per trovare la felicità.
Non è forse vero che in qualsiasi luogo e in qualsiasi cosa, su questa terra, finora hai cercato la felicità?
Però tutto questo non è stato in grado di rasserenare completamente il tuo cuore; tu ti sei reso conto che, allorché ti sei scelto come scopo la felicità terrena, ti sei imbattuto sempre nella delusione, hai trovato dei limiti, avresti voluto qualcosa di più e di più duraturo. Non ti sei forse accorto che ogni mezzo destinato ad uno scopo è limitato e che il suo limite è appunto la subordinazione ad uno scopo? [...] Anche i beni, non sono uno scopo, ma un mezzo e tu puoi e devi utilizzarli solo come tali. Se te li proporrai come uno scopo, allora non ti basteranno più.
Mettiti calmo e rifletti: quando, in definitiva, potrai essere pienamente felice? Lascia che la tua fantasia costruisca liberamente per te l'edificio della felicità che hai sognato: cerca di immaginarti tutto ciò che hai desiderato e chiediti: "e se ce ne fosse ancora di più? E se durasse più a lungo?" Se la tua anima non è ancora appagata, non hai raggiunto la tua felicità, il tuo scopo. E qualsiasi limite ti rimanga ancora da superare, sarà sempre un impedimento verso la perfezione della tua felicità. Ciò significa che tu desideri la felicità, ma una felicità senza limitazioni: infinita, eterna. Anche questo desiderio di felicità ha il proprio appagamento, vale a dire Dio infinito ed eterno.
(dagli scritti di Massimiliano Kolbe)

mercoledì 24 agosto 2011

La Bibbia nascosta

Un giovane muratore lavorava alla demolizione di una casa che doveva essere ristrutturata. Ad un tratto, staccando un pezzo d'intonaco, vide che un mattone era stato sostituito da un libro. Un grosso volume che era stato murato. Incuriosito, lo tolse. Era una Bibbia. Chissà come era finita là.
Il giovane muratore non aveva mai avuto molto interesse per questioni religiose, ma durante la pausa del pranzo cominciò a leggere quel libro.
Continuò alla sera, a casa, e per tante altre sere.
A poco a poco scoprì le parole che Dio indirizzava proprio a lui. E la sua vita cambiò.
Due anni dopo, l'impresa del muratore si trasferì per lavoro in Arabia.
Laggiù, gli operai condividevano piccole camerette.
Una sera, il compagno di stanza del muratore lo osservò mentre cominciava tranquillamente a leggere la sua Bibbia.
«Che cosa leggi?», gli chiese.
«La Bibbia».
«Uff! La Bibbia! Tutte balle!
Pensa che io, una volta, ne ho murata una nella parete di una casa vicino a Milano. Sarei curioso di sapere se il diavolo è riuscito. a farla uscire di là!».
Il giovane muratore, sorpreso, guardò il suo compagno.
«E se io ti facessi vedere proprio quella Bibbia?».
«La riconoscerei, perché l'avevo segnata».
Il giovane muratore porse al compagno la sua Bibbia. «Riconosci il tuo segno?».
L'altro prese in mano il volume e rimase turbato.
Era proprio la Bibbia che aveva murato, dicendo ai compagni di lavoro. « Voglio proprio vedere se uscirà di qui sotto!».
Il muratore sorrise. «Come vedi, è tornata da te».

Bruno Ferrero, Quaranta Storie nel Deserto

giovedì 18 agosto 2011

A nascondino


Il nipote di Rabbi Baruch, Jehiel, giocava un giorno a nascondino con
un altro ragazzo. Egli si nascose ben bene e attese che il compagno lo cercasse. Dopo aver atteso a lungo uscì dal nascondiglio, ma l’altro non si
vedeva.
Jehiel si accorse allora che quello non lo aveva mai cercato. Questo lo
fece piangere; piangendo corse nella stanza del nonno e si lamentò del
cattivo compagno di gioco. Gli occhi di Rabbi Baruch si riempirono
allora di lacrime e disse: «Così dice anche Dio: Io mi nascondo, ma nessuno mi vuol cercare».

Martin Buber, da "I racconti dei Chassidim"

mercoledì 17 agosto 2011

DANZANDO IN COPPIA

Nei momenti in cui il regno dell’umano mi
sembra condannato alla pesantezza, penso
che dovrei volare come Perseo in un altro
spazio.

Non sto parlando di fughe nel sogno o
nell’irrazionale.

Voglio dire che deve cambiare il mio
approccio, devo guardare il mondo con
un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di
conoscenza e di verifica.

Le immagini di leggerezza che io cerco non
devono lasciarsi dissolvere come sogni della
realtà del presente e del futuro...

Italo Calvino, da "Lezioni americane"

mercoledì 10 agosto 2011

Spot Ass. giacomogiacomo

...sarà trasmesso dal 21 al 28 Agosto in 13 grandi stazioni questo spot dell'Ass. GiacomoGiacomo che in collaborazione con CVX ITALIA e LMS opera in Kenya con progetti socio-educativi.
 

mercoledì 13 luglio 2011

giovedì 23 giugno 2011

Tempo di scelte...

Viviamo un tempo particolarissimo in cui la frammentazione del sapere, la frantumazione dei valori, l’insicurezza istituzionale ed esistenziale determinano una seria difficoltà di operare scelte. Soprattutto i giovani, ai quali è stato rubato il futuro,non sentono e spesso non possono scegliere perché non hanno alternative (la condizione base per poter operare delle scelte e prendere le
necessarie decisioni). L’instabilità genera ansia per il futuro e rende il presente gramo e amaro.
Riconosciamo di esserci trovati a vivere in un mondo e in un’epoca di tipica decadenza.
A me questo mondo e quest’epoca affascinano.
Proprio perché è il tempo della crisi, proprio perché non abbiamo un forte passato prossimo che ci
sostiene e il futuro è ancora immerso nella notte mentre il presente ci sollecita a viverlo così com’è senza prospettive, tutto è nelle nostre mani, tutto dipende da noi e dalla capacità che abbiamo, come singoli ma soprattutto come gruppi, di ritornare a sognare, immaginare, progettare. Noi non sappiamo come sarà il futuro, ma dobbiamo sapere come vogliamo che sia.
Per troppo tempo ci siamo assuefatti, ci siamo lasciati sopraffare da un’ingiusta impotenza (noi piccoli cosa possiamo fare! Non possiamo illuderci di cambiare le cose! ecc.); abbiamo preferito rifugiarci nel nostro piccolo mondo assaporando quelle piccole semplici cose che ci danno un minimo di sicurezza; abbiamo mortificato il respiro universale del nostro cuore e tutto ciò che è fuori della porta di casa nostra ci è diventato nemico-ostile. E contemporaneamente siamo andati
alla ricerca di modelli effimeri, abbiamo accettato la logica del “mordi e fuggi”, del “anche un solo
attimo di notorietà-apparenza”. Forse da un po’ di tempo c’è qualcosa che si agita, una coscienza
nuova, uno sdegno che diventa sussulto di dignità, la riscoperta del valore di saper dire “no”.
E ci viene in aiuto il profeta Isaia. «Sentinella, quanto resta della notte; sentinella quanto resta della
notte», diventa il grido della nostra attesa, il grido dell’ansia del povero. Siamo nella notte, sappiamo che la notte passa, desideriamo vedere la luce.
L’ultima scena di Napoli milionaria vede la donna sconfitta e abbattuta, un gesto d’amore gratuito che viene proprio da chi è stato sfruttato, una parola densa di dolore e di speranza: «Ha da passà ’a nuttata». Eduardo De Filippo realizza questa grande opera drammatica in una Napoli distrutta dalla seconda guerra mondiale, appena “liberata”. Questa parola non è espressione di un atteggiamento di passiva rassegnazione, porta in sé una potente carica rivoluzionaria. È il grido della speranza che nasce proprio dalla disperazione.
È vero, siamo ancora nella notte.
È vero pure che molto dipende da noi e dalle nostre scelte; le nostre mani, che accettano di “sporcarsi”, affrettano il giorno.
Crisi è passaggio, svolta, discernimento.
È questo il tempo favorevole per mettere in atto quegli strumenti che ci sono stati donati attraverso la spiritualità ignaziana. È questo il tempo in cui noi, con grande umiltà ma con grande coscienza che ciò che ci è stato donato non è per noi ma perché noi possiamo socializzarlo, ci dobbiamo fare “compagni” dell’uomo perché insieme possiamo “costruire il giorno”.
Certamente per noi sarà un impegno faticoso e forse anche doloroso ma se portiamo dentro la vita e vogliamo che venga fuori, accetteremo anche il dolore.
Qualche anno fa, scrivevo:

E così lentamente si scioglie
il grumo di pensieri e di sangue
e di un parto che sarà doloroso
finalmente avverto le doglie.

Inaridirono tutte le voglie
anni di silenzio esangue
ed il cuore chiuso ed ombroso
una voce inattesa ora coglie.

Guardo il cielo d’agosto al tramonto
quando il giorno non è già più qui
e la notte a fatica s’avanza
come guerra pur vinta, già persa.


Portiamo nel cuore questa certezza e accettiamo di “sprecare la nostra vita”.

P. VINCENZO SIBILIO S.J.

Fonte: Editoriale della rivista Cristiani nel mondo • GENNAIO-FEBBRAIO 2011

lunedì 20 giugno 2011

Il pellegrinaggio interiore.........

Penetriamo in noi stessi, nel più intimo di noi stessi, per scoprire cos'è che arde, cos'è che ci riempie di gioia indescrivibile e ci allarga il cuore giovanile con ansie e ideali. In questa penetrazione noi incontriamo un primo strato, che è il mondo della nostra immaginazione, già più profondo del mondo delle sensazioni dei nostri sensi, ma tuttavia ancora volubile e superficiale. Se continuiamo la nostra penetrazione, toccheremo il mondo affettivo, più esuberante, più intimo, ma pure esso mutevole e che non esaurisce la realtà del nostro essere: sono miei affetti, ma non sono io stesso. Penetrando ancora di più, raggiungeremo il mondo delle idee, mondo intellettuale, profondo, personale e più stabile; ma anche qui non sono io, ma le mie idee. Ma se lo attraversiamo e ci approfondiamo ancora di più, ci incontreremo con qualcosa di fermo e stabile, che rimane con noi tutta la vita: l'Io personale, il supporto di tutto il resto, dove io mi incontro e io riconosco me stesso e dove mi sento responsabile di tutte le mie azioni passate.
È questa la grande scoperta. Quello che mi è più intimo di quanto non sia io a me stesso (intimior intimo meo), è l'Amore personificato infinito, di infinita energia, che ci dà vita e impulso.

Pedro Arrupe SJ, Il pellegrinaggio interiore, Discorso ai giovani, Roma 11 dicembre 1980

martedì 14 giugno 2011

Laboratorio di formazione politica - Calascio

A Calascio (L'Aquila) nel Parco Nazionale Gran Sasso Monti della Laga l'associazione "Amici di Calascio" e la CVX Italia propongono un Laboratorio di Formazione Politica rivolto a giovani tra 20 e 35, che vogliono affrontare la dimensione del servizio al prossimo, anche, eventualmente, attraverso l’impegno politico.

Qui è possibile trovare il programma dettagliato

Pubblicizziamo la proposta, indirizzata a giovani dai 20 ai 35 anni, nella nostra rete di relazioni. Per informazioni e contatti: giorgio.catena@gmail.com

giovedì 9 giugno 2011

....diario di Etty Hillesum

« Sabato sera, mezzanotte e mezzo

[...] Per umiliare qualcuno si deve essere in due: colui che umilia, e colui che è umiliato e soprattutto: che si lascia umiliare. Se manca il secondo, e cioè se la parte passiva è immune da ogni umiliazione, questa evapora nell’aria. Restano solo delle disposizioni fastidiose che interferiscono nella vita di tutti i giorni, ma nessuna umiliazione e oppressione angosciose.

Si deve insegnarlo agli ebrei.

Stamattina pedalavo lungo lo Stadionkade e mi godevo l’ampio cielo ai margini della città, respiravo la fresca aria non razionata. Dappertutto c’erano cartelli che ci vietano le strade per la campagna. Ma sopra quell’unico pezzo di strada che ci rimane c’è pur sempre il cielo, tutto quanto.

Non possono farci niente, non possono veramente farci niente.

Possono renderci la vita un po’ spiacevole, possono privarci di qualche bene materiale o di un po’ di libertà di movimento, ma siamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori con il nostro atteggiamento sbagliato: con il nostro sentirci perseguitati, umiliati e oppressi, con il nostro odio e con la millanteria che maschera paura. Certo ogni tanto si può esser tristi e abbattuti per quel che ci fanno, è umano e comprensibile che sia così. E tuttavia: siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli.

Trovo bella la vita, e mi sento libera.

I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore.

La vita è difficile, ma non è grave.

Dobbiamo prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da sé: e “lavorare sé stessi” non è proprio una forma di d’individualismo malaticcio.

Una pace futura potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in sé stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo. E’ l’unica soluzione possibile.

E così potrei continuare per pagine e pagine. Quel pezzetto d’eternità che ci portiamo dentro può esser espresso in una parola come in dieci volumi.

Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra. »

dal diario di Etty Hillesum....

mercoledì 1 giugno 2011

Davanti allo specchio

L'unico consiglio che mi sento di dare - e che regolarmente do - ai giovani è questo: combattete per quello in cui credete. Perderete, come le ho perse io, tutte le battaglie. Ma solo una potrete vincerne. Quella che s'ingaggia ogni mattina davanti allo specchio. Si cita spesso una battuta: «Bisogna vivere come si pensa, altrimenti si finirà per pensare come si è vissuto» (la frase è nel romanzo Il demonio meridiano pubblicato nel 1914 dallo scrittore francese Paul Bourget). Questo monito vale soprattutto per i giovani che non hanno ancora impresso alla loro vita una piega. È per questo che lo accosto al «consiglio» che a loro indirizzava Indro Montanelli nel suo scritto autobiografico Soltanto un giornalista. Egli introduceva una duplice dimensione nel suo suggerimento. La prima è quella del «pudore», una realtà sempre più scarsa nei nostri giorni «svergognati». Come si sa, la decenza non è solo quella sessuale, ma anche il rossore quando si traligna. Lo scrittore irlandese George Bernard Shaw ricordava che «l'uomo è l'unico animale capace di arrossire. Ma è anche l'unico ad averne bisogno». Purtroppo, spesso, e non solo tra i giovani, impera la sfrontatezza. Sulle guance si spalma il colore neutro dell'indifferenza morale, della spudoratezza, dell'improntitudine che cancella ogni rossore della coscienza. C'è un'altra dimensione che il «consiglio» di Montanelli introduce ed è quella della coerenza con le proprie idee. Certo, ironicamente ci si potrebbe talora chiedere: ma si hanno ancora idee o convinzioni oggi? La verifica della conformità tra pensare e fare la si ha simbolicamente «davanti allo specchio», ossia quando si esamina la propria coscienza. Ma anche qui sorge una domanda: si è ancora abituati a guardarsi dentro l'anima e a giudicarsi? Facciamo, allora, risuonare le parole di sant'Agostino: «Ritorna in te stesso: è lì che abita la verità».

Gianfranco Ravasi, Il mattutino
Fonte: www.avvenire.it - 01.06.11

giovedì 19 maggio 2011

Acqua, La CVX Italia dice SI


Ogni essere umano ha diritto ad avere acqua nella quantità necessaria alle esigenze fondamentali della sua vita. 
L’acqua è una risorsa essenziale per la vita [...].
L’acqua non deve essere mercificata con il rischio che l’accesso dei meno abbienti diventi problematico. 


il comunicato completo:
Ogni essere umano ha diritto ad avere acqua nella quantità necessaria alle esigenze fondamentali della sua vita. L’acqua è una risorsa essenziale per la vita, un bene comune e per questo motivo non riteniamo che la sua gestione da parte di società che massimizzano il profitto, ovvero privilegiano tra i diversi portatori d’interesse (utenti, lavoratori, comunità locali, azionisti) gli azionisti anteponendo il loro interesse a quello degli altri soggetti citati in caso di conflitto tra di essi.
L’acqua non deve essere mercificata  con il rischio che l’accesso dei meno abbienti diventi problematico. L’acqua è una risorsa che richiede ingenti investimenti per la sua fruibilità. Il settore della captazione, trattamento e distribuzione dell’acqua ha la natura di un monopolio naturale. La gestione privata dei servizi idrici, come peraltro di tutti servizi di pubblica utilità resi in regime di monopolio o oligopolio, ha comportato storicamente  un aumento dei prezzi e una riduzione degli investimenti.
 Il pubblico, secondo questo punto di vista, dà maggiori garanzie del privato, anche quando quest’ultimo viene regolamentato. Le numerose esperienze di “cattura del regolatore” dimostrano che il potere e la forza del privato può, anche in un quadro di norme e regole, finire per rendere molto problematico il lavoro del controllore.
I due fattori chiave della gestione di tale risorsa sono l’accesso universale da parte dei cittadini e la manutenzione delle strutture e risorse idriche.
La breve ma tormentata storia delle privatizzazioni e i primi dati empirici oggi esistenti confermano i limiti della gestione privata verificando, soprattutto in Italia ma anche nel caso eclatante di Parigi, come tale gestione abbia dato risultati inferiori in termini di controllo dei prezzi e di investimenti rispetto a quella pubblica. È pur vero che in talune realtà “il pubblico”  può non essere efficiente; ma ci sono tanti esempi di realtà pubbliche che praticano una buona gestione dell’acqua con efficacia, efficienza e lungimiranza riguardo agli investimenti.

Fatti salvi questi principi fondamentali e quindi il sostegno ai quesiti referendari riteniamo sia necessario riflettere con attenzione sulla complessità e le problematicità della gestione delle risorse idriche per evitare di incappare negli estremi opposti della demagogia e degli interessi privati di parte. E’ ben noto infatti che le tariffe devono necessariamente coprire i costi e gli investimenti e che è necessario trovare strade tariffarie per penalizzare lo spreco dell’acqua e per consentire quell’adeguamento delle infrastrutture che consentirà di gestire in modo efficiente e senza sprechi una risorsa così preziosa.
Sulla scia di esempi interessanti in varie aree del mondo (dal Burkina Faso agli Stati Uniti) dove i limiti del privato for profit e del pubblico sono stati rilevati riteniamo promettente una terza via di privato sociale not for profit nel quale, in ossequio ad un principio di partecipazione e di sussidiarietà, le comunità di utenti hanno un ruolo fondamentale nella governance delle società di gestione sotto la regolamentazione di un’autorità indipendente.  
Se si stabilisce infatti il principio per il quale i portatori d’interesse primari nel settore dell’acqua sono proprio gli utenti, ne dovrebbe coerentemente conseguire un loro ruolo prioritario nella gestione delle società del settore.
Riteniamo in conclusione il referendum un momento fondamentale di sensibilizzazione sul tema attraverso il quale i cittadini votando faranno presente la loro attenzione e partecipazione su temi fondamentali per costruire un’economia al servizio della persona e non viceversa. Se il governo in carica sta cercando di depotenziare il referendum attraverso la creazione di un’autority indipendente questo obiettivo di riequilibrio dei rapporti di forza a favore dei cittadini responsabili che il referendum si propone sta in parte, anche se in modo insufficiente, già avvenendo.
In conclusione l’impegno per la sensibilizzazione sui temi dell’acqua e del referendum appare coerente con la mission della CVX di essere testimoni sensibili ed operatori competenti. In troppi settori (purtroppo anche in quello dell’acqua) le due cose non vanno più di pari passo e si è creato un fossato tra i sensibili che non possiedono le conoscenze tecniche dei problemi e i competenti che hanno perso ogni riferimento etico. La nostra missione di laici ignaziani è quella di essere ponti tra questi due mondi sensibilizzando i competenti e aiutando a crescere nella conoscenza i sensibili. 
Comitato Esecutivo della CVX  ITALIA

martedì 3 maggio 2011

Pietre Vive - Si parte!

A partire dal 7 maggio e per tutti i successivi sabati del mese saranno disponibili presso la Chiesa dell’Immacolata nel Gesù Nuovo dei volontari che offriranno un servizio gratuito di guide di arte e spiritualità alla scoperta della chiesa dei gesuiti a Napoli.

L’iniziativa che porta il nome di “Pietre Vive” nasce dal desiderio dei giovani delle Comunità di Vita Cristiana (CVX) di Napoli e di Sant’Arpino di annunciare il Vangelo a chi si crede più “lontano” dalla fede e in particolare al gran numero di turisti che visitano i luoghi di culto di interesse storico-artistico. Lo scopo è rendere accessibile il messaggio spirituale che si cela nelle forme architettoniche e pittoriche ammirate dai visitanti. Si tratta di un’operazione di fedeltà all’intenzione prima degli artisti e delle comunità che hanno voluto creare uno spazio per la comunione con Dio. Desiderio delle “Pietre vive” è un ridare ai grandi monumenti dell’arte cristiana il loro ruolo di accoglienza, di evangelizzazione, di invito alla preghiera.
Il progetto Pietre Vive si propone quindi come risposta alla ricerca di senso dell’uomo che “ha smarrito la Chiesa”, e si sviluppa come modo di svelare il Cristo che si dice nell’arte, secondo la bellissima intuizione di Giovanni Crisostomo: “Se un pagano viene e ti dice: Mostrami la tua fede!, tu portalo in chiesa e mostragli la decorazione di cui è ornata, e spiegagli la serie dei quadri sacri”.

La prima esperienza di Pietre Vive in Italia si è svolta a Roma dal 13 al 25 settembre 2008. Le due intense settimane di attività alle chiese del Gesù e di S. Ignazio, sotto la guida esperta di un gruppo di padri gesuiti, hanno raccolto una ventina di giovani guide di numerose nazionalità. L’interesse crescente di visitatori e passanti, credenti e non, in buona percentuale stranieri, e la particolare ebbrezza vissuta nel poter parlare liberamente dell’avventura di Dio con l’uomo, hanno fatto sì che l’esperienza segnasse profondamente i cuori dei partecipanti. Il ritorno a casa di alcuni ha sancito l’inizio di un anno molto speciale.

Nell’autunno del 2008, dall’entusiasmo di alcuni partecipanti all’esperienza romana, prende vita Pietre Vive a Bologna presso la Basilica di S. Stefano. Questa volta ci sono le forze perchè il progetto diventi un servizio settimanale, scandito con regolarità durante l’anno. La presenza di un gruppo di guide stabile sul territorio permette anche lo svilupparsi di iniziative con le parrocchie, sia per la formazione di catechisti ed educatori che per i bambini: nascono su questa scia le guide su misura per i più piccini. Intanto l’interesse per il progetto si diffonde anche a livello nazionale ed europeo, voci favorevoli a riguardo si fanno sentire da Trieste, Pisa, Milano, Madrid (Spagna) e Brno (Rep. Ceca).

Verso la fine del 2010, i padri gesuiti del Gesù Nuovo di Napoli ispirati da p. Jean Paul Hernandez S.I., che ha seguito la formazione dei gruppi “Pietre Vive” a Roma e a Bologna, hanno proposto ai giovani delle CVX di Napoli e Sant’Arpino di iniziare un cammino di formazione alla scoperta del prezioso patrimonio artistico e teologico della Chiesa dell’Immacolata nel Gesù Nuovo. Così come già accaduto nelle altre città, il progetto ha trovato un terreno fertile sul quale crescere e svilupparsi, tanto che circa 20 giovani si sono ritrovati per diversi mesi a partecipare agli incontri di approfondimento artistico e teologico e si sono preparati ad offrire ai turisti italiani e stranieri che visiteranno Napoli l’occasione di ricevere qualcosa di più di una mera descrizione tecnica del monumento, addirittura chiusa a qualsiasi esperienza di fede, ma piuttosto di riconoscere nell’arte cristiana l’annuncio della buona notizia di Gesù, restituendo alle pietre quell’orizzonte di significato nel quale sono state pensate.


giovedì 28 aprile 2011

Incontro...

Io lo conosco:
ha riempito le mie notti con frastuoni orrendi,
ha accarezzato le mie viscere,
imbiancato i miei capelli per lo stupore.
Mi ha resa giovane e vecchia
a seconda delle stagioni,
mi ha fatta fiorire e morire
un'infinità di volte.
Ma io so che mi ama
e ti dirò, anche se tu non credi,
che si preannuncia sempre
con una grande frescura in tutte le membra
come se tu ricominciassi a vivere
e vedessi il mondo per la prima volta.
E questa è la fede, e questo è lui,
che ti cerca per ogni dove
anche quando tu ti nascondi
per non farti vedere.

Alda Merini, Corpo d'amore. Un incontro con Gesù

martedì 26 aprile 2011

Auguri a Rosario sj

Oggi è il Gran Giorno...e la CVX Oscar Romero di Sant'Arpino 
Ti Augura Ogni Grazia affidandoti il meraviglioso pensiero 
di Don Tonino Bello "La Chiesa del Gembriule" 

«A me piace moltissimo l'espressione Chiesa del Gembriule, cioè Chiesa del servizio. Sembra un'immagine un tantino audace, discinta, provocante, ma è al centro del Vangelo: Gesù, preso un asciugatoio, se lo cinse intorno alla vita. Poi, versata dell'acqua in un catino, cominciò a lavare i piedi dei discepoli (Gv 13, 3-12).
[...] è questo l'unico paramento sacerdotale ricordato nel Vangelo.
Le nostre Chiese, celebrano liturgie splendide, anche vere, ma quando si tratta di rimboccarsi le maniche, c'è sempre un asciugatoio che manca, una brocca che è vuota d'acqua, un catino che non si trova...Quando riprese le vesti, secondo il Vangelo, Gesù non depose l'asciugatoio: se lo tenne. 

Gesù è diacono permanente, è servo a tempo pieno.»




AUGURI ROSARIO


sabato 23 aprile 2011

Maria, donna coraggiosa

Maria, donna coraggiosa
Maria, donna coraggiosa

Santa Maria, donna coraggiosa, alcuni anni fa in una celebre omelia pronunciata a Zapopan nel Messico, Giovanni Paolo II ha scolpito il monumento più bello che il magistero della Chiesa abbia mai elevato alla tua umana fierezza, quando disse che tu ti presenti come modello «per coloro che non accettano passivamente le avverse circostanze della vita personale e sociale, né sono vittime dell'alienazione».

Dunque, tu non ti sei rassegnata a subire l'esistenza. Hai combattuto. Hai affrontato gli ostacoli a viso aperto. Hai reagito di fronte alle difficoltà personali e ti sei ribellata dinanzi alle ingiustizie sociali del tuo tempo. Non sei stata, cioè, quella donna tutta casa e chiesa che certe immagini devozionali vorrebbero farci passare. Sei scesa sulla strada e ne hai affrontato i pericoli, con la consapevolezza che i tuoi privilegi di Madre di Dio non ti avrebbero offerto isole pedonali capaci di preservarti dal traffico violento della vita.

Perciò, Santa Maria, donna coraggiosa, tu che nelle tre ore di agonia sotto la croce hai assorbito come una spugna le afflizioni di tutte le madri della terra, prestaci un po' della tua fortezza. Nel nome di Dio, vendicatore dei poveri, alimenta i moti di ribellione di chi si vede calpestato nella sua dignità. Alleggerisci le pene di tutte le vittime dei soprusi. E conforta il pianto nascosto di tante donne che, nell'intimità della casa, vengono sistematicamente oppresse dalla prepotenza del maschio.

Ma ispira anche la protesta delle madri lacerate negli affetti dai sistemi di forza e dalle ideologie di potere. Tu, simbolo delle donne irriducibili alla logica della violenza, guida i passi delle "madri-coraggio" perché scuotano l'omertà di tanti complici silenzi. Scendi in tutte le "piazze di maggio" del mondo per confortare coloro che piangono i figli desaparecidos. E quando suona la diana di guerra, convoca tutte le figlie di Eva perché si mettano sulla porta di casa e impediscano ai loro uomini di uscire, armati come Caino, ad ammazzare il fratello.

Santa Maria, donna coraggiosa, tu che sul Calvario, pur senza morire hai conquistato la palma del martirio, rincuoraci col tuo esempio a non lasciarci abbattere dalle avversità. Aiutaci a portare il fardello delle tribolazioni quotidiane, non con l'anima dei disperati, ma con la serenità di chi sa di essere custodito nel cavo della mano di Dio. E se ci sfiora la tentazione di farla finita perché non ce la facciamo più, mettiti accanto a noi. Siediti sui nostri sconsolati marciapiedi. Ripetici parole di speranza.

E allora, confortati dal tuo respiro, ti invocheremo con la preghiera più antica che sia stata scritta in tuo onore: «Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, santa Madre di Dio; non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta». Così sia. (Don Tonino Bello)

venerdì 22 aprile 2011

Il Mistero Pasquale - Omelia di don Tonino Bello

Watch live streaming video from dontoninobello at livestream.com

Il “potere” di servire

Rinunciare alla ricchezza per essere più liberi È la dimensione che, a prima vista, sembra accomunare la povertà cristiana a quella praticata da alcuni filosofi o da molte correnti religiose. In realtà, però, c'è una sostanziale differenza tra la rinuncia cristiana e quella che, per intenderci, possiamo chiamare rinuncia filosofica. Questa interpreta i beni della terra come zavorra. Come palla al piede che frena la speditezza del passo. Come catena che, obbligandoti agli schemi della sorveglianza e alle cure ansiose della custodia, ti impedisce di volare. È la povertà di Diogene, celebrata in una serie infinita di aneddoti, intrisa di sarcasmi e di autocompiacimenti, di disprezzo e di saccenteria, di disgusti raffinati e di arie magisteriali. La botte è meglio di un palazzo, e il regalo più grande che il re possa fare è quello che si tolga davanti perché non impedisca la luce del sole.
La rinuncia cristiana ai beni della terra, invece, pur essendo fatta in vista della libertà, non solleva la stessa libertà a valore assoluto e a idolo supremo dinanzi a cui cadere in ginocchio. Il cristiano rinuncia ai beni per essere più libero di servire. Non per essere più libero di sghignazzare: che è la forma più allucinante di potere. Ecco allora che si introduce nel discorso l'importantissima categoria del servizio, che deve essere tenuta presente da chi vuole educarsi alla povertà. Spogliarsi per lavare i piedi, come fece Gesù che, prima di quel sacramentale pediluvio fatto con le sue mani agli apostoli, "depose le vesti".

Don Tonino Bello, Sui sentieri di Isaia

mercoledì 20 aprile 2011

La lotta necessaria

Molte volte accade di sentire che vivere è lottare.
Poche volte si sente dire che l’arte è una lotta.

La lotta diventa di frequente una metafora dell’esistenza umana. E, in effetti, la vita è una lotta sin dalla sua origine e fino alla sua fine. Comincia con un rapporto d’amore, che esso stesso è una forma (anche rituale, ludica e stilizzata) di lotta. E’ frutto di un parto, che sebbene oggi giustamente si tende a vivere in maniera rilassata e fiduciosa rimane pur sempre una lotta fisica. La morte stessa è una lotta, nominata col termine, ancor più doloroso da evocare, di “agonia”, che significa appunto “lotta”. La riflessione sul mistero cristiano della Pasqua (morte e resurrezione) ha espresso un verso latino di straordinaria potenza: Mors et vita duello conflixere mirando (tradotto perde il suo ritmo e la sua intensità: “morte e vita si sono affrontate in un proigioso duello”). L’arco intero della vita, a sua volta, è denso di lotte, conflitti, litigi, dialettiche, confronti, scontri…

Sembra che le immagini di lotta appena citate rivelino solamente il negativo della vita. Falso. Forse un troppo facile irenismo ha fatto credere che tutto ciò che è lotta sia male, mentre tutto ciò che è armonia di benessere sia, appunto, bene. Falso. Abbiamo fatto scomparire il senso della lotta dalle nostre vite, narcotizzandole, svilendole, ammorbidendole.

Tutti i passaggi fondamentali di una vita, in realtà, implicano un confronto o con se stessi o con la realtà o con gli altri. Confronto significa anche radicalmente incontro. Si può forse dire, radicalizzando il discorso, che, senza scontro, non c’è incontro vero, profondo, coinvolgente.

La carezza è segno di un incontro solo se è profonda: altrimenti è passaggio di superficie, cioè, appunto incontro superficiale. Servirebbe solo a togliere la polvere. E invece ogni incontro (con la realtà, gli altri, persino Dio – almeno nella rivelazione ebraico-cristiana, cfr. la lotta di Giacobbe con l’angelo di Genesi 32, 23-33) vive di un inevitabile “corpo a corpo”. Esso, come avviene nel pugilato, implica sempre una forma di danza leggera, oltre che una disposizione alla fatica e alla resistenza. La danza è essa stessa una lotta, a sua volta. La vicenda di Billy Eliott ne è un esempio di grande efficacia. Il pugile è un orso ballerino, come dovrebbe essere ogni essere umano, in qualche modo.

La pace non nasce dal puro e asettico rispetto (respicere = guardare [senza toccare]): nasce invece da mani che, incontrandosi, si stringono con intensità; mani che sanno avvertire il peso e la consistenza di una stretta.

Ciò vale anche per l’opera d’arte. L’ispirazione migliore non nasce come un fluido mellifluo che scorre quieto dal cervello alla carta (o alla tela,…) tramite le mani. Nasce invece da un corpo a corpo con se stessi, la parole (i colori, i suoni, i materiali,…), i personaggi, le storie,…

Valgono per l’ispirazione artistica le parole bibliche di Geremia che descrivono quella profetica: “Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso. [...]. Mi dicevo: ‘Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!’. Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo”.

Antonio Spadaro S. J. su BombaCarta

lunedì 18 aprile 2011

Il Crocifisso, scandalo e rivoluzione

La nota sentenza della Corte europea dei diritti umani sul crocifisso ha suscitato in me sentimenti contrastanti: trovo giusto che le scuole (e altri luoghi pubblici) si adeguino al fatto che il nostro non è uno Stato confessionale, però provo qualche brivido a immaginarmi il crocifisso tolto dai muri, come se fosse qualcosa di cui vergognarsi. E anche provando a pensare a cosa direbbe Gesù stesso, mi vengono in mente due sue frasi molto diverse: «Quando pregate, fatelo nel segreto della vostra stanza», «Chi si vergognerà di me e del Vangelo...»
Raffaele, Genova

Le tue parole rivelano l'imbarazzo del credente. Ho letto le reazioni più diverse, pro e contro, deliranti o intelligenti. Stupisce quando il crocifisso è difeso con forza da chi ne fa baluardo alla propria superiorità razziale o identità culturale. Sono persone pie, propense a crociate e roghi, o furbastre, attente ai propri interessi. Ai primi farebbe bene riflettere sul Grande Inquisitore di Dostoewskij; ai secondi giova rileggere i «guai a voi» di Gesù ai potenti. Faccio qualche considerazione che non aggiunga legna al fuoco delle polemiche, ma acqua per spegnerlo.

Dio non ama la croce, ma gli uomini. Per questo, piuttosto che crocifiggerne uno, si lascia crocifiggere lui. Non lui ha inventato la croce, ma il male del mondo, che lui tanto ama e vuole salvare. Il Crocifisso è il grande mistero del cristianesimo: «sdemonizza» Dio, mostrandone il vero volto. Egli non è padrone, legislatore, giudice e... boia; ma è tutto e solo amore per i suoi figli, cattivi e buoni. Non privilegia razze, culture o credenze; ha però un debole per maledetti e peccatori. La croce ci libera dalla falsa immagine di Dio, di uomo e di vita/morte. Dio è chi ama con un amore più forte della morte; uomo è non chi domina, ma chi si fa servo; la vita non è bene da salvare, ma dono da donare. La croce non è certo talismano o mezzo di dominio, religioso o culturale: è segno di un amore che rispetta tutti, partendo dagli ultimi, quelli che disprezziamo e, appunto, crocifiggiamo.

Veniamo alla croce nelle scuole e nei tribunali. Secondo i Vangeli, all'origine della croce c'è la scuola/chiesa che Gesù frequentò da piccolo a Nazaret. Lì, dopo la prima predica, «i suoi» cercano di ucciderlo. Alla fine il tribunale religioso lo giudica come bestemmiatore e quello politico lo condanna come sovversivo. Così Gesù finisce in croce. Tra due malfattori, che sono la sua corte. Uno di loro lo riconosce come Dio: è il primo teologo. Il secondo è il comandante del plotone di esecuzione: lo riconosce come giusto. Suo trono è il patibolo dello schiavo ribelle. Da lì, vicino a ogni lontananza da Dio, Gesù è solidale con ogni perduto. I suoi amici alla fine, preso coraggio, lo staccano dalla croce.

Questa storia dice cosa è la croce di Gesù. «Il crocifisso non genera nessuna discriminazione. Tace. È l'immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l'idea dell'uguaglianza fra gli uomini fino ad allora assente... Nessuno prima di lui aveva mai detto che gli uomini sono tutti uguali e fratelli» (Natalia Ginzburg).

Circa poi l'astio tra clericali e anticlericali - specchio gli uni degli altri -, come prete mi propongo di essere più umano e meno clericale. Che il bel nome di Dio non sia bestemmiato per causa nostra! È bene non cercare il dominio sul mondo - grazie a Dio ci sta sfuggendo -, né avere il complesso della «cittadella assediata». Se il mondo non ci capisce e ci odia, impariamo noi a capirlo e amarlo, anche a costo di finire in croce. Concluderei con un suggerimento: più che imporre o deporre crocifissi dai muri, perché non ci proponiamo di deporre dalla croce tutti i poveri Cristi? E sono miliardi. Tutti quelli che noi del Primo mondo, cristiani e non, ci premuriamo di porre e mantenere in croce!

Silvano Fausti S. J.
Fonte: Popoli, 1 gennaio 2010

martedì 12 aprile 2011

Chi sono in dieci parole

Rincresce che la quarta di copertina non abbia resistito alla tentazione e snoccioli a chiare lettere: «Mosè, primo alpinista, è in cima al Sinai». In realtà, nell’ultimo libro di Erri De Luca - E disse (Feltrinelli, pp. 96, euro 10) - il nome di Mosè non compare anzi, la scena iniziale insiste nel porre sulle labbra di uno stravolto scalatore la domanda «Chi sono?». E questi non è in cima al Sinai, ma piuttosto «sul bordo dell’accampamento», cioè ai piedi della montagna. Del resto, nessuno dei personaggi contemporanei all’evento ed evocati dal racconto è chiamato per nome: solo alla moglie del condottiero scalatore è dato l’affettuoso soprannome di «Rondine».

Eppure è evidente a tutti che Erri De Luca ci sta narrando l’evento del «dono della Torah» alle tribù degli ebrei usciti dall’Egitto e chiamati a divenire popolo nel deserto, per poi entrare consapevolmente nella terra promessa. Questa immediatezza con cui il lettore colloca la vicenda nello spazio e nel tempo propri al libro dell’Esodo è significativa di quanto l’evento biblico fondante la fede d’Israele e il testo delle «dieci parole» faccia parte del nostro bagaglio culturale.
Così, con questa arguzia letteraria, De Luca ritorna a leggere - ma potremmo dire a riscrivere - il cuore di quel testo di Esodo/Nomi con cui aveva avviato nel 1994 la fissazione su carta della sua scalata nelle Scritture sacre. Un approccio alla Bibbia, il suo, da innamorato non credente ma attento alla fede degli altri e, soprattutto, alle parole che quella fede alimentano. E con questa passione quasi maniacale di scrutatore dello «sta scritto» - e con la sensibilità dell’alpinista che conosce ebbrezza e spossatezza di ascensioni e discese - l’autore costruisce il racconto attorno a un intreccio di identità che si illuminano reciprocamente.

L’interrogativo «Chi sono?» schiude le labbra di colui che quarant’anni prima aveva udito da un roveto ardente il Nome poi divenuto impronunciabile, quel «Io sono colui che sono», impoverito da ogni traduzione. Ed è l’identità di un popolo quella che viene a crearsi quando un’accozzaglia di «servi appena riscattati senza compravendita» assiste impietrita allo scolpirsi sulla roccia di parole che danno vita e indicano una strada buona ora e ancor più per le generazioni future.
Non è certo un testo di riflessione teologica o di approfondimento biblico, questo di Erri De Luca, ma una narrazione di stile sapienziale, una rilettura del messaggio di vita consegnato da Dio a Israele al Sinai, un’interpretazione capace di ridestare nel lettore echi di parole ascoltate e poi smarrite, ricostruzioni di vicende e «comandamenti» che oggi molti ritengono confinati negli anni infantili del catechismo, salvo poi ritrovarseli come pietre miliari di un vissuto quotidiano e perfino come fondazioni della costruzione di una società civile planetaria.
Sì, nel racconto biblico del Decalogo che narra Dio e dà identità a un popolo, anche il lettore contemporaneo può recuperare non solo brandelli di storie già note ma, più ancora, fili di senso per un’esistenza che, apparentemente così lontana dagli accampamenti nel deserto, si trova ogni giorno a far fronte a domande antiche come il mondo: Chi sono? Dove vado? Chi sono gli altri per me? Chi orienta il mio desiderio?

Enzo Bianchi

(fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 19 marzo)

Una visione di Dio e del Diavolo

Ho incontrato Dio Padre sulla strada
e gli aggettivi con cui vorrei descriverlo sono questi:
divertente,
sperimentale,
irresponsabile –
sulle frivolezze.
Non era un uomo che vorrebbe essere eletto al Consiglio
né impressionerebbe un vescovo
o un circolo di artisti.

Non era splendido, spaventoso o tremendo
e neppure insignificante.
Questo era il mio Dio che fece l’erba
e il sole
e i ciottoli nei ruscelli in aprile;
questo era il Dio che ho incontrato
in una vecchia cava colma di denti-di-leone.
Questo era il Dio che ho incontrato a Dublino
mentre vagavo per strade inconsapevoli.

Questo era il Dio che covò sui campi erpicati –
di Rooney – accanto alla statale Carrick
il giorno che i miei primi versi furono stampati –
io lo conobbi e mai ebbi paura
di morte o dannazione
e seppi che la paura di Dio era il principio della follia.

Il Diavolo
anche il Diavolo ho incontrato,
e gli aggettivi con cui vorrei descriverlo sono questi:
solenne,
noioso,
conservatore.
Era l’uomo che il mondo eleggerebbe al Consiglio,
sarebbe nella lista degli invitati al ricevimento di un vescovo,
assomigliava a un artista.

Era il tizio che scrive di musica sui quotidiani
andava in collera quando qualcuno rideva;
era grave su cose senza peso;
dovevi fare attenzione al suo complesso d’inferiorità
perché era consapevole di non essere creativo.

Patrick Kavanagh

Fiorire

Fiorire è profonda responsabilità.
Fiorire - è il fine ...
Colmare il bocciolo - combattere il verme -
ottenere quanta rugiada gli spetta -
regolare il calore - eludere il vento -
sfuggire all'ape ladruncola -
non deludere la natura grande
che l'attende proprio quel giorno -
essere un fiore, è profonda responsabilità.

(Emily Dickinson)

lunedì 11 aprile 2011

SE

Se riesci a mantenere la calma
quando tutti intorno a te la stanno perdendo...
Se sai aver fiducia in te stesso quando tutti dubitano di te
tenendo, però, nel giusto conto i loro dubbi...
Se sai aspettare senza stancarti dell'attesa
o essendo calunniato non rispondere alle calunnie
o essendo odiato non dare spazio all'odio
senza tuttavia sembrare troppo buono
né parlare troppo da saggio...
Se sai sognare senza fare dei sogni i tuoi padroni...
Se riesci a pensare senza fare dei tuoi pensieri il tuo fine...
Se sai incontrarti con il successo e la sconfitta
e trattare questi due impostori allo stesso modo...
Se riesci a sopportare di sentire la verità che tu hai detto
distorta da imbroglioni
che ne fanno una trappola per ingenui;
e guardare le cose per le quali hai dato la vita
distrutte, e umiliarti a ricostruirle...
Se in un sol colpo puoi rischiare tutto quanto hai avuto dalla vita e perderlo,
e poi ricominciare senza pentirti della tua partita;
Se sai costringere il tuo cuore, i tuoi nervi, i tuoi polsi
a sorreggerti anche quando sono esausti,
e così resistere quando in te non c'è più nulla
tranne la volontà che dice loro: "Resistete"
Se sai parlare con i disonesti senza perdere la tua onestà
o passeggiare con i re senza perdere il comportamento normale...
Se non possono ferirti né i nemici né gli amici troppo premurosi...
Se per te ogni persona conta, ma nessuno troppo...
Se riesci a riempire ogni inesorabile minuto
dando valore a ogni istante che passa...
Tua è la Terra e tutto ciò che vi è in essa
e - quel che più conta - tu sarai un Uomo, figlio mio!
(R. Kipling)

venerdì 8 aprile 2011

Nelle tue piaghe nascondici...

Salmo 15(16)

1 Miktam. Di Davide.
Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.
2 Ho detto a Dio: «Sei tu il mio Signore,
senza di te non ho alcun bene».
3 Per i santi, che sono sulla terra,
uomini nobili, è tutto il mio amore.
4 Si affrettino altri a costruire idoli:
io non spanderò le loro libazioni di sangue
né pronunzierò con le mie labbra i loro nomi.
5 Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita.
6 Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi,
è magnifica la mia eredità.
7 Benedico il Signore che mi ha dato consiglio;
anche di notte il mio cuore mi istruisce.
8 Io pongo sempre innanzi a me il Signore,
sta alla mia destra, non posso vacillare.
9 Di questo gioisce il mio cuore,
esulta la mia anima;
anche il mio corpo riposa al sicuro,
10 perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro,
né lascerai che il tuo santo veda la corruzione.
11 Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena nella tua presenza,
dolcezza senza fine alla tua destra.

lunedì 4 aprile 2011

La Parola spezzata per tutti

«E voi, chi dite che io sia?». A questa domanda di Gesù, è Pietro, voce unificante del gruppo degli apostoli, a rispondere: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,15-16). Se ci pensiamo bene, è proprio innanzitutto a questo interrogativo essenziale che il successore di Pietro è chiamato in ogni tempo e ancora oggi a rispondere, facendosi interprete della fede della chiesa tutta. Ed è quanto papa Benedetto XVI fa anche con la seconda parte della sua opera su Gesù di Nazaret. (Libreria Editrice Vaticana, pp. 380, e 20), affrontando la vicenda di Gesù e della fede dei discepoli «dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione». Come già per la prima parte di quest’opera di ampio respiro, l’approccio mira a far emergere quel consenso ecclesiale, quel sensus fidei nel leggere la figura di Gesù che ha attraversato la storia della chiesa e che, nel corso dei secoli e fino ai decenni più recenti, ha saputo far tesoro di studi, commenti, interpretazioni, metodologie anche assai diverse tra loro. Qualcuno si è chiesto se vale la pena che un Papa metta tante energie nello scrivere libri, magari sottraendo tempo al suo «governo», pensato secondo i criteri politici di tutti i governi del mondo. Ma Benedetto XVI fa ciò che gli compete ed è decisivo per il suo ministero petrino: confermare la fede in Gesù Cristo. Questo è l’insegnamento determinante per un papa: perciò un atto deliberatamente non magisteriale come il libro, è tuttavia una confessione di fede fatta dalla chiesa oggi, in sinfonia con la grande tradizione cattolica.

Anche il linguaggio volutamente piano e pedagogico, capace di distillare gli elementi più consolidati dell’esegesi storico-critica e di fonderli con la lettura sapienziale propria della grande tradizione patristica e spirituale, rende quest’opera di Benedetto XVI particolarmente appetibile anche per il largo pubblico: un ragionare discorsivo che viene incontro alla sete di conoscenza e al desiderio di comprensione che è presente anche in molte persone lontane o marginali rispetto alla compagine ecclesiale. Ora, si tratta di un approccio fondamentale proprio per i capitoli conclusivi dei Vangeli, che trattano la passione, morte e risurrezione di Gesù: brani che affrontano da un lato il cuore dell’incontro-scontro tra la figura e la predicazione di Gesù e le istituzioni religiose giudaiche e l’autorità politica romana e, dall’altro, il nodo stesso dell’interpretazione degli scritti del Nuovo Testamento.

Semplice rielaborazione storica di eventi accaduti o non piuttosto riflessione interpretativa che riesce a coniugare l’esperienza vissuta dai primi discepoli con la fede della chiesa nascente? In questo senso alcuni critici dell’opera del papa finiscono per incespicare nelle loro stesse argomentazioni: non si può infatti invocare la «storicità» di alcuni brani evangelici per contrapporla all’interpretazione teologica della prima comunità cristiana di cui risentirebbero altri passaggi neotestamentari.

Non solo lo studioso, ma anche il lettore ordinario sa che l’intero Nuovo Testamento è stato scritto dopo la risurrezione di Gesù o, se si vuole, dopo la predicazione di questo evento sconvolgente ad opera dei primi discepoli. È quindi questo dato «di fede» a costituire da subito il criterio interpretativo di tutta la vicenda storica di Gesù. Questo non significa - e il lavoro di Benedetto XVI lo evidenzia con singolare efficacia - che la dimensione storica non abbia spazio nell’ambito della predicazione e dell’autocomprensione della chiesa, ma piuttosto che «l’incarnazione», il calarsi del Figlio di Dio nella condizione umana abbraccia non solo le debolezze della carne umana ma anche la fragilità di un annuncio non scrutabile esaurientemente alla luce dei soli dati storico-critici.

Per i cristiani non è decisiva innanzitutto la parola «Dio», bensì la conoscenza di Gesù Cristo, colui che ha «narrato Dio», come testimonia il prologo del quarto Vangelo. È attraverso la conoscenza di Gesù Cristo, della sua vita, delle sue parole, della sua passione, morte e risurrezione che si giunge ad aver fede e a conoscere il «Dio che nessuno ha mai visto». Sovente i cristiani, soprattutto nel recente passato erano istruiti intellettualmente su Dio, la sua esistenza, la sua provvidenza: erano credenti in un Dio attorniato da santi con cui avevano maggiore familiarità e di cui conoscevano le «storie», ma pochi tra di loro arrivavano ad avere fede in Gesù Cristo attraverso la conoscenza della sua vita e morte narrate dai Vangeli.

Benedetto XVI con questa sua rilettura di Gesù Cristo apre, forse come mai avvenuto prima, una conoscenza essenziale alla fede dei cristiani che non sono teisti, né in certo senso monoteisti, ma aderenti a un Dio unico che è una comunione di amore e che si è rivelato pienamente e definitivamente nella vita umana di Gesù Cristo suo Figlio.

La fede cristiana, allora, non è meno solida per il fatto di fondarsi non su una prova incontrovertibile - almeno secondo i criteri moderni - della risurrezione di Gesù, bensì sulla testimonianza di uomini e donne semplici ma divenuti «affidabili» per quanti ne hanno ascoltato la predicazione. Ammettere che la fede si basa non sull’aver visto o toccato con mano alcunché, bensì sulle umanissime parole e sui gesti concreti di persone «normali» dotate di risorse intellettuali e di patrimoni culturali più o meno ricchi, significa compiere il primo passo nella comprensione che la rivelazione, l’invito pressante all’amore rivolto da Dio al suo popolo e portato a compimento nella vita di Gesù e nella sua morte per gli altri «non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire?... Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica (Dt 30,12-14)».

Con il suo Gesù di Nazaret, Benedetto XVI ha reso «vicina» questa parola.
ENZO BIANCHI

fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 2 aprile

Civiltà Cattolica sugli hacker

"Ormai è convinzione comune che gli hacker siano sabotatori, se non veri e propri criminali informatici. Parlare di etica hacker può allora suonare persino ironico". In un articolo dal titolo "Etica hacker e visione cristiana" che appare sul nuovo fascicolo della "Civiltà Cattolica", l'autorevole rivista quindicinale della Compagnia di Gesù, si cerca di fare chiarezza sulla storia degli hacker, la loro vera identità e la loro 'filosofia'.

Così padre Antonio Spadaro, critico letterario e specialista di nuove tecnologie informatiche per conto della redazione del periodico gesuita, le cui bozze vengono riviste dalla Segreteria di Stato della Santa Sede, distingue gli hacker chiaramente dai cracker, operatori di illegalità. Indagando i modelli di vita e di ricerca intellettuale hacker, fondati sulla creatività e la condivisione, padre Spadaro ne discute la compatibilità con una visione cristiana della vita.

"Senza paragonare indebitamente comunità hacker e comunità cristiana - sostiene padre Spadaro - i cristiani e gli hacker oggi, in un mondo votato alla logica del profitto, hanno comunque molto da darsi, come dimostra del resto anche l'esperienza degli hacker che fanno della loro fede un impulso del loro lavoro creativo".

Il termine hacker, ricorda il gesuita Spadaro, è ormai entrato nel vocabolario comune grazie al fatto che giornali e televisioni, ma anche film e romanzi, lo hanno diffuso ampiamente
riferendolo a un'ampia serie di fenomeni quale violazione di segreti, di codici e password, di sistemi informatici protetti e così via.

Nel caso di Wikileaks si è addirittura parlato di "hacker all'attacco del mondo", identificando in Julian Paul Assange, il suo fondatore, l'"hacker incendiario del web". In generale, dunque, si legge nell'articolo della "Civiltà Cattolica" si è imposto "il luogo comune per cui il termine hacker viene associato a persone molto esperte nel riuscire a entrare in siti protetti e a sabotarli o, addirittura, a veri e propri criminali informatici".
Parlare di etica hacker "può allora suonare persino ironico".

Perché allora se ne occupa la seriosissima rivista della Compagnia di Gesù? Sebbene ormai i media abbiamo imposto questa immagine degli hacker, in realtà i cosiddetti "pirati informatici" hanno un altro nome: cracker. Il termine hacker invece di per sé individua una figura molto più complessa e costruttiva, argomenta padre Spadaro.

"Gli hackers costruiscono le cose, i crackers le rompono (hackers build things, crackers break them)", afferma una delle citazioni riportate nell'articolo della "Civiltà Cattolica". Hacker dunque è colui, spiega la rivista dei Gesuiti, che "si impegna ad affrontare sfide intellettuali per aggirare o superare creativamente le limitazioni che gli vengono imposte nei propri ambiti d'interesse".

Per lo più il termine hacker si riferisce a esperti di informatica, ma di per sé, sostiene padre Spadaro "può essere esteso a persone che vivono in maniera creativa molti altri aspetti della loro vita".

"Quella hacker è, insomma, una sorta di 'filosofia' di vita, di atteggiamento esistenziale, giocoso e impegnato, che spinge alla creatività e alla condivisione, opponendosi ai modelli di controllo, competizione e proprietà privata. Intuiamo dunque come parlando in modo proprio degli hacker - aggiunge il gesuita - siamo di fronte non a problemi di ordine penale, ma a una visione del lavoro umano, della conoscenza e della vita. Essa pone interrogativi e sfide quanto mai attuali".

Non è difficile, pertanto, sostiene l'articolo della "Civiltà Cattolica", riconoscere l'intuizione di una "vita beata" nel codice genetico della visione hacker della vita, l'intuizione che l'essere umano è chiamato a "un'altra vita, a una realizzazione piena e compiuta della propria umanità".

Scrive sempre padre Spadaro: "Ovviamente l'hacker non è l'uomo dell'ozio e del dolce far niente. Al contrario è molto attivo, persegue le proprie passioni e vive di uno sforzo creativo e di una conoscenza che non ha mai fine. Tuttavia sa che la sua umanità non si realizza in un tempo organizzato rigidamente, ma nel ritmo flessibile di una creatività che deve diventare la misura di un lavoro veramente umano, quello che meglio corrisponde alla natura dell'uomo. Tom Pittman più volte si è espresso sull'illogicità dell'ateismo e si è professato cristiano, ma anche altre esperienze dimostrano che tra fede ed etica hacker si possono creare sintonie".

"Ad esempio - aggiunge - il linguaggio di programmazione Perl, creato nel 1987 dall'hacker Larry Wall, cristiano evangelico, è sì l'acronimo di Practical Extraction and Report Language ma in origine si chiamava Pearl e deve il suo nome alla 'perla di gran valore' trovata la quale un mercante vende tutto pur di comprarla, come racconta il Vangelo di Matteo". Conclude padre Spadaro: "Una tale etica hacker può acquistare persino risonanze profetiche per il mondo d'oggi votato alla logica del profitto, per ricordare che il cuore umano anela a un mondo in cui regni l'amore, dove i doni siano condivisi".

http://www.repubblica.it/tecnologia/2011/04/03/news/civilt_cattolica_rivaluta_gli_hacker_hanno_fede_positiva_nell_informatica-14454606/