giovedì 18 aprile 2013

TU CHE SEI AL DI SOPRA DI NOI



Tu che sei al di sopra di noi,
tu che sei uno di noi,
tu che sei anche in noi,
che tutti ti vedano, anche in me,
che io ti prepari la strada,
che io possa render grazie per tutto ciò che mi accadrà.
Che io non dimentichi i bisogni degli altri.
Conservami nel tuo Amore
come vuoi che tutti dimorino nel mio.
Possa tutto il mio essere volgersi a tua gloria
E possa io non disperare mai.
Perché io sono sotto la tua mano,
e in te ogni forza e bontà.

Donami un cuore puro - che io possa vederti,
e un cuore umile - che io possa sentirti,
e un cuore amante - che io possa servirti,
e un cuore di fede - che io possa dimorare in te.

Dag Hammarskjold, Tracce di cammino, Bose 1992, pp. 125-26.

martedì 16 aprile 2013

Un lavoratore - da Cristiani nel Mondo 1/2013


“Annunciazione, annunciazione”. Chi di noi all’udire questa semplice ripetizione non ritorna immediatamente con la memoria al celeberrimo sketch del trio La Smorfia? Forse subito ci ricordiamo di quella scenografia approssimativa, di quella donna dai riccioli nerissimi e dell’espressione al tempo stesso esilarante ed amara disegnata come una maschera dal talento naturale di Massimo Troisi, o dell’improbabile arcangelo Gabriele mezzo cieco e dalla posticcia chioma bionda interpretato dal barbuto Lello Arena, o ancora da un giovanissimo Enzo Decaro ora cherubino addetto alla creazione dell’atmosfera celestiale e ora nevrotico Pilato che insiste nel suo ostinato tentativo di “lavarsene le mani”.
Chi ha visto almeno una volta quella rappresentazione, ritenuta stupidamente da alcuni lesiva della memoria di una delle pagine più poetiche e teologicamente intense della nostra storia di fede, leggendo queste prime righe forse starà già sorridendo e sentendo nelle orecchie il frastuono della tromba e il tonfo dei piedi sbattuti a terra del maldestro Gabriele. Ma oltre il sapiente intreccio di equivoci, di personaggi da commedia dell’arte, di maschere tanto moderne da sembrare quasi un affresco neorealista, di tempi comici meravigliosamente sincronizzati, c’è qualche ulteriore plausibile chiave di lettura? A me piacerebbe provare a fare un piccolo esercizio in tal senso, provando a tirare fuori dal testo alcuni interessanti spunti che a prima vista rischiano di passare inosservati, ma che proprio perché restano come sottotraccia forse stimolano la curiosità di chi non si limita a subire passivamente un’opera creativa ma lasciandosi interrogare da essa la interroga a sua volta.
Ma andiamo per ordine. Troisi esordisce prima ancora che con le parole con i suoi gesti, con l’espressione del suo viso, dimessa, timida, gli occhi bassi verso il pavimento come chi sembra volersi giustificare per la propria stessa presenza nel mondo. Si guarda intorno e inizia a raccontare di sé, della propria casa, casa di poveri pescatori, ma soprattutto casa “umile ma onesta”; parole che non si limitano a diventare uno dei tanti tormentoni dello sketch, ma nel loro essere espresse con una fermezza che sembra stridere con la timidezza del personaggio ci vogliono dire della dignità di chi le pronuncia. Non a caso la parola onestà ha la stessa radice dell’onore. L’onestà di quella casa non è quindi una semplice aderenza alle leggi stabilite, che pure si evincerà più avanti nel racconto della brava donna, ma è un legame viscerale ad un onore che neanche la povertà più nera può sfregiare. E qual è la sorgente di quell’onore incrollabile se non proprio l’umiltà, qualità troppo spesso confusa con la sottomissione, la remissività o peggio con la codardia, ma che sappiamo invece essere legata all’humus, alla terra, in altre parole all’adamà, quella terra da cui siamo stati tratti. Nel suo senso più profondo allora essere umili non significa nient’altro che riscoprire la nostra vera identità di uomini, trovare il nostro posto nella creazione. A questo punto non può che tornarci al cuore “l’umiltà della serva del Signore” che forse siamo abituati a cercare in atteggiamenti austeri, solenni, talvolta cupi, ma che possiamo invece sperimentare in ogni casa “umile ma onesta” che abbiamo avuto la fortuna di visitare e che assomiglia magari un po’ anche a questa sullo sfondo della quale ci stiamo per fare quattro sane risate.
Gente onesta quindi abita questa casa dove siamo appena entrati. Non solo la donna che con l’orgoglio della propria povertà ci pone drammaticamente di fronte alla nostra scellerata esigenza di apparire. “Ci sta” un altro abitante silenzioso ed invisibile, il marito della donna. Trovo molto interessante che il primo aggettivo che questa utilizza per definire il marito sia “un lavoratore”. Il marito non è bello, non è una brava persona, un buon marito o un bravo padre di famiglia, è prima di tutto un lavoratore. Ciò che lo identifica, che lo racconta come uomo prima di ogni altra caratteristica o qualifica è quella parola: un lavoratore.
Fermiamoci allora un attimo per una prima riflessione. Chi è questo marito/lavoratore? Proviamo a cercare qualche indizio. Di lui non conosciamo il nome, non conosciamo il volto, sappiamo fin qui solo della sua onestà e della sua dedizione al lavoro. Durante tutto lo sketch ne sentiremo parlare molto, ma continueremo a non vederlo. Appariranno angeli, cherubini, alti funzionari romani, re, sentiremo perfino indirettamente la voce del “Signore” ma lui si terrà lontano dalla luce dei riflettori, dal centro della scena. Sarà una presenza silenziosa, discreta. Proprio come la presenza di Giuseppe, quest’uomo di cui non conosciamo l’età, che in quattro vangeli non pronuncia neanche una parola e di cui conosciamo solo la giustizia e l’amore paziente e operante. E che dire del fatto che oltre ad essere ricordato come padre nella festività del 19 marzo, il buon Giuseppe venga anche ricordato proprio come “Lavoratore” nella festa del 1° maggio, assumendo il ruolo di simbolo e protettore di ogni uomo che nella dignità del lavoro trova significato e sapore della propria vita? Eppure anche in quell’occasione rimane fedele alla sua vocazione, sparendo dopo quell’unico giorno a lui dedicato per lasciare il posto ad un intero mese di festeggiamenti in onore della sua amata sposa.
Capiremo molto prima di Gabriele che quella donna non è la donna dell’Annunciazione, ma non possiamo non rimanere convinti nel nostro cuore che quell’uomo è uno dei tanti Giuseppe della Storia, un uomo capace di rinunciare a sé non semplicemente sparendo, ma accettando di non apparire nemmeno una volta.
Ma torniamo al nostro lavoratore e alla sua vita sbattuta in mezzo al mare, in mezzo alle onde che vanno e che vengono. Una vita pericolosa, che impone alla povera moglie continue preoccupazioni e angosce ad ogni tuono. E se la barca che torna sola questa volta è la barca di mio marito? Questa domanda, posta in maniera così semplice e cruda tanto da provocarci anche un sorriso può sembrare così lontana da noi. Anzi, tutta questa situazione sembra uscita da un racconto verista di metà ottocento. Trosi, Arena e Decaro hanno scritto e interpretato questo testo alla fine degli anni ’70 del novecento, ma oggi, nel 2013, ha ancora senso che una moglie si interroghi riguardo il marito che esce per andare al lavoro chiedendosi: “tornerà, non tornerà”? Molti professori sono sicuramente in grado di rispondere meglio di me a questa domanda, ma credo che in un paese che conta circa 1000 morti all’anno sul lavoro, limitandoci ai soli dati ufficiali, una domanda come questa sia tremendamente attuale. In particolare credo che come cristiani che amano vantarsi delle proprie battaglie in difesa della vita siamo maggiormente chiamati ad un presidio ed una vigilanza senza sconti sul tema della sicurezza sul posto di lavoro. Specialmente negli ultimi anni nei quali assistiamo ad una dinamica che non esito a definire diabolica, nel senso letterale, perché tende a dividere, separare, mettere in conflitto la sicurezza e la competitività, avvalorando la tesi che questa si raggiunge solo con l’abbattimento dei costi qualunque essi siano. Un po’ come dire, con le dovute proporzioni, che per alleggerire la spesa pubblica è necessario smettere di costruire asili e, perché no, magari anche smettere di fare figli.
Proseguiamo ancora un po’ nella nostra analisi. Nel momento di preoccupazione, di angoscia, di sconforto della donna ecco che si fa presente l’arcangelo messaggero, la voce del “Signore”. E quali sono le caratteristiche dell’arcangelo? Ci appare mezzo cieco, sembra non rendersi conto di ciò che accade e di dove si trova, dice qualcosa che ha poco senso, è totalmente fuori contesto e lascia la donna infastidita e perplessa. Per di più non ascolta una parola di ciò che la donna gli dice e tira dritto per la sua strada. Sarebbe molto interessante ragionare su questi elementi e pur non essendo il tema di questa riflessione mi piaceva lasciarli lì sullo sfondo affinché ognuno se ne sentisse provocato.
Questa non è che la prima delle incursioni che interromperanno la narrazione della donna. Non ci soffermeremo però su queste incursioni, per quanto certamente divertenti e significative, bensì proveremo a focalizzare ancora la nostra attenzione sul “lavoratore”. Aver esposto le proprie preoccupazioni sulla pericolosità del lavoro del marito permette alla donna di introdurci in una seconda fase del racconto, quello della ricerca di un nuovo lavoro, di quell’occasione che possa migliorare la loro attuale condizione. E qui a mio parere viene fuori il vero capolavoro dell’autore/attore di San Giorgio a Cremano.
Troisi ci accompagna per mano indossando stavolta i panni del “povero cristo” che si mette alla ricerca di un lavoro. Nessuna pretesa, vuole solo un lavoro, o meglio un lavoro solo, senza ulteriori aggettivi o caratterizzazioni. È curioso infatti, secondo me, che la sua ricerca non si imbatta in assenza di lavoro, ma in lavori “deformati”. Quanti giovani più o meno qualificati sperimentano oggi un mercato del lavoro quantomeno bizzarro, nel quale è evidente che la necessità di “skill”, come si usa dire oggi, esiste, è anche piuttosto urgente, e nel quale però la parola d’ordine è flessibilità, che troppo spesso è un velo per coprire la malizia di chi ti chiede di accettare un compromesso al ribasso. Chi crede che questa mia considerazione sia troppo semplicistica provi a pensare a quanti giovani e meno giovani si trovano ad avere un contratto di collaborazione a progetto e si vedono invece imposti orari e modalità di lavoro proprie del lavoro subordinato, il che dovrebbe rappresentare una contraddizione in termini ma che è di fatto una ignobile prassi sin dall’introduzione della legge 30/2003, nota per motivi di propaganda come legge Biagi.
Ma torniamo al testo. Troisi ci pone di fronte alcune delle deformazioni del lavoro tipiche di quegli anni, ma scopriremo nostro malgrado che da allora queste deformazioni non solo non sono sparite, ma si sono a loro modo evolute ed adattate alla nuova configurazione della società moderna e globalizzata. Procediamo ancora una volta lasciandoci guidare dai tempi comici e dallo snodarsi della vicenda del “lavoratore”.
La prima deformazione è il lavoro minorile. Qui Troisi affronta l’argomento in maniera apparentemente leggera, ironica, ma risulta evidente la sua critica feroce. Possiamo ritrovare questa tecnica nella produzione del trio La Smorfia anche ad altre tematiche delicate, come la questione della mortalità infantile ancora molto attuale in quegli anni a Napoli. Come anticipavo ci appare subito di fronte agli occhi una contraddizione. Il lavoro di per sé ci sarebbe ma è minorile, ovvero in qualche modo vincolato non alle competenze necessarie ma all’età di chi lo compie. Immediatamente siamo portati a pensare a quanti dei nostri indumenti, delle nostre scarpe e spesso anche dei nostri prodotti alimentari e tecnologici provengono da produzioni più o meno lontane dove lo sfruttamento del lavoro minorile è massiccio e indiscriminato e già questo basterebbe per stimolare in noi una seria riflessione sulle nostra abitudini di consumo. Ma oltre questo aspetto credo che ragionare sullo scandalo del lavoro minorile ci possa portare ad un ulteriore interrogativo. Esiste una relazione così stretta tra età e capacità di svolgere un determinato lavoro? In prima battuta ci verrebbe da dire di sì, un ragazzino ancora acerbo o un anziano debilitato non possono certo fare il manovale o il chirurgo. Ma se spostiamo la nostra attenzione sul tema della ricollocazione di chi perde il lavoro intorno ai 45-50 anni? Quanto spesso abbiamo sentito storie di persone che non sono più così giovani da riciclarsi né così vecchi da andare in pensione? Non parliamo di incapaci o di inabili, ma di donne e uomini che hanno l’unica colpa di avere un’età che non rispetta i parametri di un mercato del lavoro dove ancora una volta un costo basso conta più di una professionalità qualificata. E allora l’iperbole disegnata da Troisi descrivendo i suoi due figli di 18 e 20 anni ormai fuori da un’età lavorativa che si ferma a 12 potrebbe non sembrarci più così assurda.
La seconda deformazione è il lavoro nero, in particolare il lavoro nero femminile. Di nuovo ci si rivolge ad una categoria che si ritiene di poter costringere a condizioni ben al di fuori del diritto del lavoro. Sarebbe fin troppo facile qui commentare come larga parte del sud Italia è affetto dalla piaga del lavoro nero, che in alcune regioni è molto più diffuso di quello regolare e rappresenta l’unica possibilità per tantissime persone, non solo giovani, di avere un reddito e spinge molti di essi ad accettare ricatti tra i quali il voto di scambio è solo uno dei più sdoganati. Qui faccio una piccola digressione; quanti analisti politici o semplici intellettuali che pretendono di conoscere e commentare i fenomeni socio politici sanno non tanto quanto costa un chilo di pane, ma quanto costa oggi, in molti paesini del sud, un voto? In Campania usiamo l’espressione “segreto di Pulcinella” per definire qualcosa che tutti sanno ma tutti fanno finta di non sapere. Ebbene uno dei più evidenti segreti di Pulcinella è che oggigiorno bastano 20 euro, magari in buoni benzina o in mozzarelle di Bufala, per comprarsi il voto di una persona. Ma chiediamoci, questo avviene solo a causa della crisi di civismo che è più devastante di quella economica? O qualche responsabilità ce l’ha anche la resa definitiva delle istituzioni, plasticamente descritta nell’immagine della spugna gettata con gran dignità propostaci magistralmente da Fabrizio De Andrè nella canzone Don Raffaè? Questa drammatica perdita di credibilità e forza dello stato sociale e delle sue conquiste in tema di diritto del lavoro si riverbera in un modo di cui forse non riusciamo a cogliere la pericolosità.
Si diceva però della precisazione sul lavoro nero femminile. Anche qui si potrebbe aprire tutta una serie di riflessioni, ma mi limiterò a porre l’attenzione su alcuni elementi. Oggi va di moda parlare di rispetto o addirittura valorizzazione delle differenze, in particolare quelle di genere, eppure abbiamo un divario salariale tra uomini e donne di circa il 25% e un rapporto tra il numero di donne e uomini in posizioni di potere (ad esempio nei consigli di amministrazione) per certi versi inquietante. E qui potremmo dire che è perché siamo un paese tradizionalista, legato all’idea della centralità della famiglia e del ruolo della donna come “angelo del focolare”. Chissà, forse è per questo che oggi in Italia al di là dei proclami è una vera impresa per una donna, anche per chi ha un contratto regolare, conciliare maternità e lavoro. Solo per fare alcuni esempi: non esiste la cultura degli asili aziendali, il tempo pieno delle scuole è tra i primi servizi che vengono tagliati, gli assegni familiari sono talmente ridicoli da sembrare uno scherzo di cattivo gusto. Per contro però esiste una prassi consolidata fatta di domande indiscrete ai colloqui (del tipo: “lei è sposata? Ha intenzione di avere figli a breve?”, poco importa se hai due lauree e un master in business administration, mi interessa solo sapere se il tuo utero è più ambizioso di te), contratti non rinnovati a donne anche solo in odore di gravidanza o quando va bene marginalizzazione delle mamme lavoratrici.
Ma il nostro buon lavoratore non si arrende, è determinato e passa oltre. In fondo lui “vuole nu bene ‘e pazzo” alla moglie, e diamine la sua casa è umile ma onesta! Incontra così la terza deformazione, il lavoro a cottimo. E qui davvero chapeau alla verve comica di Troisi, che quasi esasperato commenta: possibile che a Napoli “solo lavoro” non si trova? Deve sempre avere un’altra parola accanto? Ma al di là di questo, qualcuno potrebbe pensare che questa in fondo non è proprio una deformazione del lavoro. Non è infatti il legislatore stesso a prevedere, sebbene sotto precisi vincoli, la possibilità di lavoro retributo a cottimo alternativa al classico lavoro retribuito a tempo? Il ragionamento su questo punto sembrerebbe lapalissiano, ma basta guardarsi un po’ intorno per rendersi conto di quanti lavoratori formalmente retribuiti a tempo sono di fatto retribuiti a cottimo. Mi viene in mente al riguardo un altro sketch più recente, di un artista molto diverso da Troisi, ovvero Ascanio Celestini, il quale in uno dei suoi spettacoli descrivendo il lavoro in un call center espone in maniera semplice e drammaticamente chiara come il guadagno di un operatore di call center può essere determinato sulla base del tempo della telefonata dell’utente, fino però ad un guadagno massimo di 85 centesimi lordi per telefonata. Sono assolutamente certo che da un punto di vista legale tutto questo sia corretto, ma noi che siamo cristiani sappiamo che la giustizia supera la legalità e non possiamo non chiederci quanto sia giusto riconoscere il valore del lavoro sulla base del numero di telefonate ricevute da un operatore di call center inbound. In tutta franchezza, questo mi sembra un modo fin troppo furbo di scaricare sul lavoratore quei rischi di impresa che dovrebbero riguardare il solo datore di lavoro, senza però riconoscergli i benefici connessi.
Ma veniamo all’ultima deformazione descritta da Troisi. Il nostro eroe continua a non arrendersi, e finalmente sembra trovare qualcosa di adatto a lui, ma ancora una volta non un lavoro, bensì un lavoretto. Nella sua ingenuità, che spesso si accompagna con l’umiltà e l’onestà proprie di quella casa, il lavoratore crede di essersi guadagnato dopo tante peripezie un po’ di fortuna. Per eseguire un lavoretto, lo dice la parola stessa, serve meno fatica, in altre parole si lavora di meno. Per un pescatore abituato a lavorare di notte questa prospettiva non può che essere allettante. Scopriamo però molto presto che dietro a quel diminutivo si nasconde tutt’altro. Per capirlo bisogna guardare la mano (nun guardate a mme, guardate ‘a mano)! Qui l’osservatore attento può cogliere la più poetica e precisa descrizione dell’indole del nostro personaggio. Già, perché al di là dell’ingenuità se proviamo a contemplare la scena capiamo perché il nostro lavoratore non ha immediatamente inteso l’allusione del suo interlocutore. Questo brav’uomo è abituato a guardare in faccia le persone, a confrontarsi con tutti alla pari nonostante il suo bisogno di lavorare. Non abbassa lo sguardo, ecco perché non può vedere il movimento ambiguo della mano! Ecco perché appena afferra la natura del lavoretto che gli si sta proponendo risponde con forza e senza mezzi termini, quasi alla maniera paolina, NO.
Questa schiena dritta che sostiene la figura umile ma onesta di un uomo qualunque che si preoccupa di dare un futuro a sua moglie e i suoi figli è in fin dei conti l’incarnazione dell’antieroe troisiano, il cui riscatto non sta nella scalata sociale o nella rivoluzione armata e violenta, ma nella fedeltà incrollabile ai suoi principi e al suo universo di valori, che gli permette, pur senza una nota di amarezza, di nuotare controcorrente, di rifiutare la comoda giustificazione del “così fan tutti”, anche quando il prezzo da pagare è la condanna senza appello alla disoccupazione.
In conclusione, credo che ognuno di noi abbia molto da imparare da questa scena apparentemente così allegra e così ingiustamente derubricata a cabaret di fine anni settanta. In fondo penso che l’assenza di un nome e di un volto per questo personaggio sia come sempre invito ad assumerne il ruolo, a sentire in noi stessi le sue mozioni interiori, le sue preoccupazioni, i suoi desideri. Ma non solo, è invito a guardare in esso il nostro fratello che anche per colpa nostra, o per nostra omissione, è costretto a sentirsi non più un uomo, ma un ingranaggio come un altro del sistema produttivo. Se proviamo infatti a ripercorrere velocemente le quattro deformazioni analizzate in questa riflessione, esse hanno tutte una radice comune, ovvero la strumentalizzazione dell’uomo, letteralmente la sua riduzione a strumento, in particolare strumento di profitto. Nessuno di noi si senta quindi esente dal rischio sempre attuale di “servirsi dell’altro invece di servire l’altro” e tenga sempre nel cuore le parole della lettera di Giacomo:
Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte agli orecchi del Signore onnipotente.


Giorgio Catena - Coordinatore CVX "Oscar Romero" - Sant'Arpino

venerdì 11 maggio 2012

Weekend con le Pietre Vive di Napoli

Non prendere impegni l'ultimo Week-end di maggio!

Ti proponiamo di trascorrerlo con le 
Pietre Vive a Napoli!! 

Un'esperienza di "comunità apostolica a tempo". 


Tre giorni al servizio dell'annuncio della Parola di Dio che è nell'arte e per incontrare il Signore nel silenzio della preghiera, nell'esperienza fraterna e nel prenderci cura del visitatore di cui facciamo conoscenza. Un'occasione per imparare tante cose sulla simbologia della fede e soprattutto per trasmetterle a chi è assettato di senso e di bellezza.


25 al 27 maggio a Napoli 


Un mini-campo internazionale per giovani studenti e lavoratori tra i 19 e i 30 anni.


Offriremo delle visite guidate gratuite incentrate su storia, arte e spiritualità nella chiesa dell'Immacolata al Gesù Nuovo di Napoli e ti incoraggiamo, un pò alla volta, ad affiancarci in questo servizio svolto per amore e gloria di Dio ed aiuto dei fratelli.

L'alloggio sarà presso i Padri Teatini (saranno necessarie delle lenzuola o sacco a pelo ed un asciugamano). 

La quota: 40 €. Per iscrizioni ed eventuali domande, contattare:

giovedì 5 aprile 2012

Combattere l'Oscurità...

 Sono venuto a portare il fuoco sulla terra;
e come vorrei che fosse già acceso!
(Luca 12,49)


¡Combate la oscuridad! (Lc 12, 49)


giovedì 16 febbraio 2012

Pietre Vive - prossimi appuntamenti

Sabato 18 febbraio un nuovo appuntamento con Pietre Vive.
Pubblichiamo gli appuntamenti fino a maggio. Cerchiamo inoltre nuovi volontari che si vogliano impegnare in questa iniziativa.