Io lo conosco:
ha riempito le mie notti con frastuoni orrendi,
ha accarezzato le mie viscere,
imbiancato i miei capelli per lo stupore.
Mi ha resa giovane e vecchia
a seconda delle stagioni,
mi ha fatta fiorire e morire
un'infinità di volte.
Ma io so che mi ama
e ti dirò, anche se tu non credi,
che si preannuncia sempre
con una grande frescura in tutte le membra
come se tu ricominciassi a vivere
e vedessi il mondo per la prima volta.
E questa è la fede, e questo è lui,
che ti cerca per ogni dove
anche quando tu ti nascondi
per non farti vedere.
Alda Merini, Corpo d'amore. Un incontro con Gesù
giovedì 28 aprile 2011
martedì 26 aprile 2011
Auguri a Rosario sj
Oggi è il Gran Giorno...e la CVX Oscar Romero di Sant'Arpino
Ti Augura Ogni Grazia affidandoti il meraviglioso pensiero
di Don Tonino Bello "La Chiesa del Gembriule"
Ti Augura Ogni Grazia affidandoti il meraviglioso pensiero
di Don Tonino Bello "La Chiesa del Gembriule"
«A me piace moltissimo l'espressione Chiesa del Gembriule, cioè Chiesa del servizio. Sembra un'immagine un tantino audace, discinta, provocante, ma è al centro del Vangelo: Gesù, preso un asciugatoio, se lo cinse intorno alla vita. Poi, versata dell'acqua in un catino, cominciò a lavare i piedi dei discepoli (Gv 13, 3-12).
[...] è questo l'unico paramento sacerdotale ricordato nel Vangelo.
Le nostre Chiese, celebrano liturgie splendide, anche vere, ma quando si tratta di rimboccarsi le maniche, c'è sempre un asciugatoio che manca, una brocca che è vuota d'acqua, un catino che non si trova...Quando riprese le vesti, secondo il Vangelo, Gesù non depose l'asciugatoio: se lo tenne.
Gesù è diacono permanente, è servo a tempo pieno.»
AUGURI ROSARIO
sabato 23 aprile 2011
Maria, donna coraggiosa
Maria, donna coraggiosa |
Santa Maria, donna coraggiosa, alcuni anni fa in una celebre omelia pronunciata a Zapopan nel Messico, Giovanni Paolo II ha scolpito il monumento più bello che il magistero della Chiesa abbia mai elevato alla tua umana fierezza, quando disse che tu ti presenti come modello «per coloro che non accettano passivamente le avverse circostanze della vita personale e sociale, né sono vittime dell'alienazione».
Dunque, tu non ti sei rassegnata a subire l'esistenza. Hai combattuto. Hai affrontato gli ostacoli a viso aperto. Hai reagito di fronte alle difficoltà personali e ti sei ribellata dinanzi alle ingiustizie sociali del tuo tempo. Non sei stata, cioè, quella donna tutta casa e chiesa che certe immagini devozionali vorrebbero farci passare. Sei scesa sulla strada e ne hai affrontato i pericoli, con la consapevolezza che i tuoi privilegi di Madre di Dio non ti avrebbero offerto isole pedonali capaci di preservarti dal traffico violento della vita.
Perciò, Santa Maria, donna coraggiosa, tu che nelle tre ore di agonia sotto la croce hai assorbito come una spugna le afflizioni di tutte le madri della terra, prestaci un po' della tua fortezza. Nel nome di Dio, vendicatore dei poveri, alimenta i moti di ribellione di chi si vede calpestato nella sua dignità. Alleggerisci le pene di tutte le vittime dei soprusi. E conforta il pianto nascosto di tante donne che, nell'intimità della casa, vengono sistematicamente oppresse dalla prepotenza del maschio.
Ma ispira anche la protesta delle madri lacerate negli affetti dai sistemi di forza e dalle ideologie di potere. Tu, simbolo delle donne irriducibili alla logica della violenza, guida i passi delle "madri-coraggio" perché scuotano l'omertà di tanti complici silenzi. Scendi in tutte le "piazze di maggio" del mondo per confortare coloro che piangono i figli desaparecidos. E quando suona la diana di guerra, convoca tutte le figlie di Eva perché si mettano sulla porta di casa e impediscano ai loro uomini di uscire, armati come Caino, ad ammazzare il fratello.
Santa Maria, donna coraggiosa, tu che sul Calvario, pur senza morire hai conquistato la palma del martirio, rincuoraci col tuo esempio a non lasciarci abbattere dalle avversità. Aiutaci a portare il fardello delle tribolazioni quotidiane, non con l'anima dei disperati, ma con la serenità di chi sa di essere custodito nel cavo della mano di Dio. E se ci sfiora la tentazione di farla finita perché non ce la facciamo più, mettiti accanto a noi. Siediti sui nostri sconsolati marciapiedi. Ripetici parole di speranza.
E allora, confortati dal tuo respiro, ti invocheremo con la preghiera più antica che sia stata scritta in tuo onore: «Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, santa Madre di Dio; non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta». Così sia. (Don Tonino Bello)
venerdì 22 aprile 2011
Il “potere” di servire
Rinunciare alla ricchezza per essere più liberi È la dimensione che, a prima vista, sembra accomunare la povertà cristiana a quella praticata da alcuni filosofi o da molte correnti religiose. In realtà, però, c'è una sostanziale differenza tra la rinuncia cristiana e quella che, per intenderci, possiamo chiamare rinuncia filosofica. Questa interpreta i beni della terra come zavorra. Come palla al piede che frena la speditezza del passo. Come catena che, obbligandoti agli schemi della sorveglianza e alle cure ansiose della custodia, ti impedisce di volare. È la povertà di Diogene, celebrata in una serie infinita di aneddoti, intrisa di sarcasmi e di autocompiacimenti, di disprezzo e di saccenteria, di disgusti raffinati e di arie magisteriali. La botte è meglio di un palazzo, e il regalo più grande che il re possa fare è quello che si tolga davanti perché non impedisca la luce del sole.
La rinuncia cristiana ai beni della terra, invece, pur essendo fatta in vista della libertà, non solleva la stessa libertà a valore assoluto e a idolo supremo dinanzi a cui cadere in ginocchio. Il cristiano rinuncia ai beni per essere più libero di servire. Non per essere più libero di sghignazzare: che è la forma più allucinante di potere. Ecco allora che si introduce nel discorso l'importantissima categoria del servizio, che deve essere tenuta presente da chi vuole educarsi alla povertà. Spogliarsi per lavare i piedi, come fece Gesù che, prima di quel sacramentale pediluvio fatto con le sue mani agli apostoli, "depose le vesti".
Don Tonino Bello, Sui sentieri di Isaia
La rinuncia cristiana ai beni della terra, invece, pur essendo fatta in vista della libertà, non solleva la stessa libertà a valore assoluto e a idolo supremo dinanzi a cui cadere in ginocchio. Il cristiano rinuncia ai beni per essere più libero di servire. Non per essere più libero di sghignazzare: che è la forma più allucinante di potere. Ecco allora che si introduce nel discorso l'importantissima categoria del servizio, che deve essere tenuta presente da chi vuole educarsi alla povertà. Spogliarsi per lavare i piedi, come fece Gesù che, prima di quel sacramentale pediluvio fatto con le sue mani agli apostoli, "depose le vesti".
Don Tonino Bello, Sui sentieri di Isaia
mercoledì 20 aprile 2011
La lotta necessaria
Molte volte accade di sentire che vivere è lottare.
Poche volte si sente dire che l’arte è una lotta.
La lotta diventa di frequente una metafora dell’esistenza umana. E, in effetti, la vita è una lotta sin dalla sua origine e fino alla sua fine. Comincia con un rapporto d’amore, che esso stesso è una forma (anche rituale, ludica e stilizzata) di lotta. E’ frutto di un parto, che sebbene oggi giustamente si tende a vivere in maniera rilassata e fiduciosa rimane pur sempre una lotta fisica. La morte stessa è una lotta, nominata col termine, ancor più doloroso da evocare, di “agonia”, che significa appunto “lotta”. La riflessione sul mistero cristiano della Pasqua (morte e resurrezione) ha espresso un verso latino di straordinaria potenza: Mors et vita duello conflixere mirando (tradotto perde il suo ritmo e la sua intensità: “morte e vita si sono affrontate in un proigioso duello”). L’arco intero della vita, a sua volta, è denso di lotte, conflitti, litigi, dialettiche, confronti, scontri…
Sembra che le immagini di lotta appena citate rivelino solamente il negativo della vita. Falso. Forse un troppo facile irenismo ha fatto credere che tutto ciò che è lotta sia male, mentre tutto ciò che è armonia di benessere sia, appunto, bene. Falso. Abbiamo fatto scomparire il senso della lotta dalle nostre vite, narcotizzandole, svilendole, ammorbidendole.
Tutti i passaggi fondamentali di una vita, in realtà, implicano un confronto o con se stessi o con la realtà o con gli altri. Confronto significa anche radicalmente incontro. Si può forse dire, radicalizzando il discorso, che, senza scontro, non c’è incontro vero, profondo, coinvolgente.
La carezza è segno di un incontro solo se è profonda: altrimenti è passaggio di superficie, cioè, appunto incontro superficiale. Servirebbe solo a togliere la polvere. E invece ogni incontro (con la realtà, gli altri, persino Dio – almeno nella rivelazione ebraico-cristiana, cfr. la lotta di Giacobbe con l’angelo di Genesi 32, 23-33) vive di un inevitabile “corpo a corpo”. Esso, come avviene nel pugilato, implica sempre una forma di danza leggera, oltre che una disposizione alla fatica e alla resistenza. La danza è essa stessa una lotta, a sua volta. La vicenda di Billy Eliott ne è un esempio di grande efficacia. Il pugile è un orso ballerino, come dovrebbe essere ogni essere umano, in qualche modo.
La pace non nasce dal puro e asettico rispetto (respicere = guardare [senza toccare]): nasce invece da mani che, incontrandosi, si stringono con intensità; mani che sanno avvertire il peso e la consistenza di una stretta.
Ciò vale anche per l’opera d’arte. L’ispirazione migliore non nasce come un fluido mellifluo che scorre quieto dal cervello alla carta (o alla tela,…) tramite le mani. Nasce invece da un corpo a corpo con se stessi, la parole (i colori, i suoni, i materiali,…), i personaggi, le storie,…
Valgono per l’ispirazione artistica le parole bibliche di Geremia che descrivono quella profetica: “Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso. [...]. Mi dicevo: ‘Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!’. Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo”.
Antonio Spadaro S. J. su BombaCarta
Poche volte si sente dire che l’arte è una lotta.
La lotta diventa di frequente una metafora dell’esistenza umana. E, in effetti, la vita è una lotta sin dalla sua origine e fino alla sua fine. Comincia con un rapporto d’amore, che esso stesso è una forma (anche rituale, ludica e stilizzata) di lotta. E’ frutto di un parto, che sebbene oggi giustamente si tende a vivere in maniera rilassata e fiduciosa rimane pur sempre una lotta fisica. La morte stessa è una lotta, nominata col termine, ancor più doloroso da evocare, di “agonia”, che significa appunto “lotta”. La riflessione sul mistero cristiano della Pasqua (morte e resurrezione) ha espresso un verso latino di straordinaria potenza: Mors et vita duello conflixere mirando (tradotto perde il suo ritmo e la sua intensità: “morte e vita si sono affrontate in un proigioso duello”). L’arco intero della vita, a sua volta, è denso di lotte, conflitti, litigi, dialettiche, confronti, scontri…
Sembra che le immagini di lotta appena citate rivelino solamente il negativo della vita. Falso. Forse un troppo facile irenismo ha fatto credere che tutto ciò che è lotta sia male, mentre tutto ciò che è armonia di benessere sia, appunto, bene. Falso. Abbiamo fatto scomparire il senso della lotta dalle nostre vite, narcotizzandole, svilendole, ammorbidendole.
Tutti i passaggi fondamentali di una vita, in realtà, implicano un confronto o con se stessi o con la realtà o con gli altri. Confronto significa anche radicalmente incontro. Si può forse dire, radicalizzando il discorso, che, senza scontro, non c’è incontro vero, profondo, coinvolgente.
La carezza è segno di un incontro solo se è profonda: altrimenti è passaggio di superficie, cioè, appunto incontro superficiale. Servirebbe solo a togliere la polvere. E invece ogni incontro (con la realtà, gli altri, persino Dio – almeno nella rivelazione ebraico-cristiana, cfr. la lotta di Giacobbe con l’angelo di Genesi 32, 23-33) vive di un inevitabile “corpo a corpo”. Esso, come avviene nel pugilato, implica sempre una forma di danza leggera, oltre che una disposizione alla fatica e alla resistenza. La danza è essa stessa una lotta, a sua volta. La vicenda di Billy Eliott ne è un esempio di grande efficacia. Il pugile è un orso ballerino, come dovrebbe essere ogni essere umano, in qualche modo.
La pace non nasce dal puro e asettico rispetto (respicere = guardare [senza toccare]): nasce invece da mani che, incontrandosi, si stringono con intensità; mani che sanno avvertire il peso e la consistenza di una stretta.
Ciò vale anche per l’opera d’arte. L’ispirazione migliore non nasce come un fluido mellifluo che scorre quieto dal cervello alla carta (o alla tela,…) tramite le mani. Nasce invece da un corpo a corpo con se stessi, la parole (i colori, i suoni, i materiali,…), i personaggi, le storie,…
Valgono per l’ispirazione artistica le parole bibliche di Geremia che descrivono quella profetica: “Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso. [...]. Mi dicevo: ‘Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!’. Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo”.
Antonio Spadaro S. J. su BombaCarta
lunedì 18 aprile 2011
Il Crocifisso, scandalo e rivoluzione
La nota sentenza della Corte europea dei diritti umani sul crocifisso ha suscitato in me sentimenti contrastanti: trovo giusto che le scuole (e altri luoghi pubblici) si adeguino al fatto che il nostro non è uno Stato confessionale, però provo qualche brivido a immaginarmi il crocifisso tolto dai muri, come se fosse qualcosa di cui vergognarsi. E anche provando a pensare a cosa direbbe Gesù stesso, mi vengono in mente due sue frasi molto diverse: «Quando pregate, fatelo nel segreto della vostra stanza», «Chi si vergognerà di me e del Vangelo...»
Raffaele, Genova
Le tue parole rivelano l'imbarazzo del credente. Ho letto le reazioni più diverse, pro e contro, deliranti o intelligenti. Stupisce quando il crocifisso è difeso con forza da chi ne fa baluardo alla propria superiorità razziale o identità culturale. Sono persone pie, propense a crociate e roghi, o furbastre, attente ai propri interessi. Ai primi farebbe bene riflettere sul Grande Inquisitore di Dostoewskij; ai secondi giova rileggere i «guai a voi» di Gesù ai potenti. Faccio qualche considerazione che non aggiunga legna al fuoco delle polemiche, ma acqua per spegnerlo.
Dio non ama la croce, ma gli uomini. Per questo, piuttosto che crocifiggerne uno, si lascia crocifiggere lui. Non lui ha inventato la croce, ma il male del mondo, che lui tanto ama e vuole salvare. Il Crocifisso è il grande mistero del cristianesimo: «sdemonizza» Dio, mostrandone il vero volto. Egli non è padrone, legislatore, giudice e... boia; ma è tutto e solo amore per i suoi figli, cattivi e buoni. Non privilegia razze, culture o credenze; ha però un debole per maledetti e peccatori. La croce ci libera dalla falsa immagine di Dio, di uomo e di vita/morte. Dio è chi ama con un amore più forte della morte; uomo è non chi domina, ma chi si fa servo; la vita non è bene da salvare, ma dono da donare. La croce non è certo talismano o mezzo di dominio, religioso o culturale: è segno di un amore che rispetta tutti, partendo dagli ultimi, quelli che disprezziamo e, appunto, crocifiggiamo.
Veniamo alla croce nelle scuole e nei tribunali. Secondo i Vangeli, all'origine della croce c'è la scuola/chiesa che Gesù frequentò da piccolo a Nazaret. Lì, dopo la prima predica, «i suoi» cercano di ucciderlo. Alla fine il tribunale religioso lo giudica come bestemmiatore e quello politico lo condanna come sovversivo. Così Gesù finisce in croce. Tra due malfattori, che sono la sua corte. Uno di loro lo riconosce come Dio: è il primo teologo. Il secondo è il comandante del plotone di esecuzione: lo riconosce come giusto. Suo trono è il patibolo dello schiavo ribelle. Da lì, vicino a ogni lontananza da Dio, Gesù è solidale con ogni perduto. I suoi amici alla fine, preso coraggio, lo staccano dalla croce.
Questa storia dice cosa è la croce di Gesù. «Il crocifisso non genera nessuna discriminazione. Tace. È l'immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l'idea dell'uguaglianza fra gli uomini fino ad allora assente... Nessuno prima di lui aveva mai detto che gli uomini sono tutti uguali e fratelli» (Natalia Ginzburg).
Circa poi l'astio tra clericali e anticlericali - specchio gli uni degli altri -, come prete mi propongo di essere più umano e meno clericale. Che il bel nome di Dio non sia bestemmiato per causa nostra! È bene non cercare il dominio sul mondo - grazie a Dio ci sta sfuggendo -, né avere il complesso della «cittadella assediata». Se il mondo non ci capisce e ci odia, impariamo noi a capirlo e amarlo, anche a costo di finire in croce. Concluderei con un suggerimento: più che imporre o deporre crocifissi dai muri, perché non ci proponiamo di deporre dalla croce tutti i poveri Cristi? E sono miliardi. Tutti quelli che noi del Primo mondo, cristiani e non, ci premuriamo di porre e mantenere in croce!
Silvano Fausti S. J.
Fonte: Popoli, 1 gennaio 2010
Raffaele, Genova
Le tue parole rivelano l'imbarazzo del credente. Ho letto le reazioni più diverse, pro e contro, deliranti o intelligenti. Stupisce quando il crocifisso è difeso con forza da chi ne fa baluardo alla propria superiorità razziale o identità culturale. Sono persone pie, propense a crociate e roghi, o furbastre, attente ai propri interessi. Ai primi farebbe bene riflettere sul Grande Inquisitore di Dostoewskij; ai secondi giova rileggere i «guai a voi» di Gesù ai potenti. Faccio qualche considerazione che non aggiunga legna al fuoco delle polemiche, ma acqua per spegnerlo.
Dio non ama la croce, ma gli uomini. Per questo, piuttosto che crocifiggerne uno, si lascia crocifiggere lui. Non lui ha inventato la croce, ma il male del mondo, che lui tanto ama e vuole salvare. Il Crocifisso è il grande mistero del cristianesimo: «sdemonizza» Dio, mostrandone il vero volto. Egli non è padrone, legislatore, giudice e... boia; ma è tutto e solo amore per i suoi figli, cattivi e buoni. Non privilegia razze, culture o credenze; ha però un debole per maledetti e peccatori. La croce ci libera dalla falsa immagine di Dio, di uomo e di vita/morte. Dio è chi ama con un amore più forte della morte; uomo è non chi domina, ma chi si fa servo; la vita non è bene da salvare, ma dono da donare. La croce non è certo talismano o mezzo di dominio, religioso o culturale: è segno di un amore che rispetta tutti, partendo dagli ultimi, quelli che disprezziamo e, appunto, crocifiggiamo.
Veniamo alla croce nelle scuole e nei tribunali. Secondo i Vangeli, all'origine della croce c'è la scuola/chiesa che Gesù frequentò da piccolo a Nazaret. Lì, dopo la prima predica, «i suoi» cercano di ucciderlo. Alla fine il tribunale religioso lo giudica come bestemmiatore e quello politico lo condanna come sovversivo. Così Gesù finisce in croce. Tra due malfattori, che sono la sua corte. Uno di loro lo riconosce come Dio: è il primo teologo. Il secondo è il comandante del plotone di esecuzione: lo riconosce come giusto. Suo trono è il patibolo dello schiavo ribelle. Da lì, vicino a ogni lontananza da Dio, Gesù è solidale con ogni perduto. I suoi amici alla fine, preso coraggio, lo staccano dalla croce.
Questa storia dice cosa è la croce di Gesù. «Il crocifisso non genera nessuna discriminazione. Tace. È l'immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l'idea dell'uguaglianza fra gli uomini fino ad allora assente... Nessuno prima di lui aveva mai detto che gli uomini sono tutti uguali e fratelli» (Natalia Ginzburg).
Circa poi l'astio tra clericali e anticlericali - specchio gli uni degli altri -, come prete mi propongo di essere più umano e meno clericale. Che il bel nome di Dio non sia bestemmiato per causa nostra! È bene non cercare il dominio sul mondo - grazie a Dio ci sta sfuggendo -, né avere il complesso della «cittadella assediata». Se il mondo non ci capisce e ci odia, impariamo noi a capirlo e amarlo, anche a costo di finire in croce. Concluderei con un suggerimento: più che imporre o deporre crocifissi dai muri, perché non ci proponiamo di deporre dalla croce tutti i poveri Cristi? E sono miliardi. Tutti quelli che noi del Primo mondo, cristiani e non, ci premuriamo di porre e mantenere in croce!
Silvano Fausti S. J.
Fonte: Popoli, 1 gennaio 2010
martedì 12 aprile 2011
Chi sono in dieci parole
Rincresce che la quarta di copertina non abbia resistito alla tentazione e snoccioli a chiare lettere: «Mosè, primo alpinista, è in cima al Sinai». In realtà, nell’ultimo libro di Erri De Luca - E disse (Feltrinelli, pp. 96, euro 10) - il nome di Mosè non compare anzi, la scena iniziale insiste nel porre sulle labbra di uno stravolto scalatore la domanda «Chi sono?». E questi non è in cima al Sinai, ma piuttosto «sul bordo dell’accampamento», cioè ai piedi della montagna. Del resto, nessuno dei personaggi contemporanei all’evento ed evocati dal racconto è chiamato per nome: solo alla moglie del condottiero scalatore è dato l’affettuoso soprannome di «Rondine».
Eppure è evidente a tutti che Erri De Luca ci sta narrando l’evento del «dono della Torah» alle tribù degli ebrei usciti dall’Egitto e chiamati a divenire popolo nel deserto, per poi entrare consapevolmente nella terra promessa. Questa immediatezza con cui il lettore colloca la vicenda nello spazio e nel tempo propri al libro dell’Esodo è significativa di quanto l’evento biblico fondante la fede d’Israele e il testo delle «dieci parole» faccia parte del nostro bagaglio culturale.
Così, con questa arguzia letteraria, De Luca ritorna a leggere - ma potremmo dire a riscrivere - il cuore di quel testo di Esodo/Nomi con cui aveva avviato nel 1994 la fissazione su carta della sua scalata nelle Scritture sacre. Un approccio alla Bibbia, il suo, da innamorato non credente ma attento alla fede degli altri e, soprattutto, alle parole che quella fede alimentano. E con questa passione quasi maniacale di scrutatore dello «sta scritto» - e con la sensibilità dell’alpinista che conosce ebbrezza e spossatezza di ascensioni e discese - l’autore costruisce il racconto attorno a un intreccio di identità che si illuminano reciprocamente.
L’interrogativo «Chi sono?» schiude le labbra di colui che quarant’anni prima aveva udito da un roveto ardente il Nome poi divenuto impronunciabile, quel «Io sono colui che sono», impoverito da ogni traduzione. Ed è l’identità di un popolo quella che viene a crearsi quando un’accozzaglia di «servi appena riscattati senza compravendita» assiste impietrita allo scolpirsi sulla roccia di parole che danno vita e indicano una strada buona ora e ancor più per le generazioni future.
Non è certo un testo di riflessione teologica o di approfondimento biblico, questo di Erri De Luca, ma una narrazione di stile sapienziale, una rilettura del messaggio di vita consegnato da Dio a Israele al Sinai, un’interpretazione capace di ridestare nel lettore echi di parole ascoltate e poi smarrite, ricostruzioni di vicende e «comandamenti» che oggi molti ritengono confinati negli anni infantili del catechismo, salvo poi ritrovarseli come pietre miliari di un vissuto quotidiano e perfino come fondazioni della costruzione di una società civile planetaria.
Sì, nel racconto biblico del Decalogo che narra Dio e dà identità a un popolo, anche il lettore contemporaneo può recuperare non solo brandelli di storie già note ma, più ancora, fili di senso per un’esistenza che, apparentemente così lontana dagli accampamenti nel deserto, si trova ogni giorno a far fronte a domande antiche come il mondo: Chi sono? Dove vado? Chi sono gli altri per me? Chi orienta il mio desiderio?
Enzo Bianchi
(fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 19 marzo)
Eppure è evidente a tutti che Erri De Luca ci sta narrando l’evento del «dono della Torah» alle tribù degli ebrei usciti dall’Egitto e chiamati a divenire popolo nel deserto, per poi entrare consapevolmente nella terra promessa. Questa immediatezza con cui il lettore colloca la vicenda nello spazio e nel tempo propri al libro dell’Esodo è significativa di quanto l’evento biblico fondante la fede d’Israele e il testo delle «dieci parole» faccia parte del nostro bagaglio culturale.
Così, con questa arguzia letteraria, De Luca ritorna a leggere - ma potremmo dire a riscrivere - il cuore di quel testo di Esodo/Nomi con cui aveva avviato nel 1994 la fissazione su carta della sua scalata nelle Scritture sacre. Un approccio alla Bibbia, il suo, da innamorato non credente ma attento alla fede degli altri e, soprattutto, alle parole che quella fede alimentano. E con questa passione quasi maniacale di scrutatore dello «sta scritto» - e con la sensibilità dell’alpinista che conosce ebbrezza e spossatezza di ascensioni e discese - l’autore costruisce il racconto attorno a un intreccio di identità che si illuminano reciprocamente.
L’interrogativo «Chi sono?» schiude le labbra di colui che quarant’anni prima aveva udito da un roveto ardente il Nome poi divenuto impronunciabile, quel «Io sono colui che sono», impoverito da ogni traduzione. Ed è l’identità di un popolo quella che viene a crearsi quando un’accozzaglia di «servi appena riscattati senza compravendita» assiste impietrita allo scolpirsi sulla roccia di parole che danno vita e indicano una strada buona ora e ancor più per le generazioni future.
Non è certo un testo di riflessione teologica o di approfondimento biblico, questo di Erri De Luca, ma una narrazione di stile sapienziale, una rilettura del messaggio di vita consegnato da Dio a Israele al Sinai, un’interpretazione capace di ridestare nel lettore echi di parole ascoltate e poi smarrite, ricostruzioni di vicende e «comandamenti» che oggi molti ritengono confinati negli anni infantili del catechismo, salvo poi ritrovarseli come pietre miliari di un vissuto quotidiano e perfino come fondazioni della costruzione di una società civile planetaria.
Sì, nel racconto biblico del Decalogo che narra Dio e dà identità a un popolo, anche il lettore contemporaneo può recuperare non solo brandelli di storie già note ma, più ancora, fili di senso per un’esistenza che, apparentemente così lontana dagli accampamenti nel deserto, si trova ogni giorno a far fronte a domande antiche come il mondo: Chi sono? Dove vado? Chi sono gli altri per me? Chi orienta il mio desiderio?
Enzo Bianchi
(fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 19 marzo)
Una visione di Dio e del Diavolo
Ho incontrato Dio Padre sulla strada
e gli aggettivi con cui vorrei descriverlo sono questi:
divertente,
sperimentale,
irresponsabile –
sulle frivolezze.
Non era un uomo che vorrebbe essere eletto al Consiglio
né impressionerebbe un vescovo
o un circolo di artisti.
Non era splendido, spaventoso o tremendo
e neppure insignificante.
Questo era il mio Dio che fece l’erba
e il sole
e i ciottoli nei ruscelli in aprile;
questo era il Dio che ho incontrato
in una vecchia cava colma di denti-di-leone.
Questo era il Dio che ho incontrato a Dublino
mentre vagavo per strade inconsapevoli.
Questo era il Dio che covò sui campi erpicati –
di Rooney – accanto alla statale Carrick
il giorno che i miei primi versi furono stampati –
io lo conobbi e mai ebbi paura
di morte o dannazione
e seppi che la paura di Dio era il principio della follia.
Il Diavolo
anche il Diavolo ho incontrato,
e gli aggettivi con cui vorrei descriverlo sono questi:
solenne,
noioso,
conservatore.
Era l’uomo che il mondo eleggerebbe al Consiglio,
sarebbe nella lista degli invitati al ricevimento di un vescovo,
assomigliava a un artista.
Era il tizio che scrive di musica sui quotidiani
andava in collera quando qualcuno rideva;
era grave su cose senza peso;
dovevi fare attenzione al suo complesso d’inferiorità
perché era consapevole di non essere creativo.
Patrick Kavanagh
e gli aggettivi con cui vorrei descriverlo sono questi:
divertente,
sperimentale,
irresponsabile –
sulle frivolezze.
Non era un uomo che vorrebbe essere eletto al Consiglio
né impressionerebbe un vescovo
o un circolo di artisti.
Non era splendido, spaventoso o tremendo
e neppure insignificante.
Questo era il mio Dio che fece l’erba
e il sole
e i ciottoli nei ruscelli in aprile;
questo era il Dio che ho incontrato
in una vecchia cava colma di denti-di-leone.
Questo era il Dio che ho incontrato a Dublino
mentre vagavo per strade inconsapevoli.
Questo era il Dio che covò sui campi erpicati –
di Rooney – accanto alla statale Carrick
il giorno che i miei primi versi furono stampati –
io lo conobbi e mai ebbi paura
di morte o dannazione
e seppi che la paura di Dio era il principio della follia.
Il Diavolo
anche il Diavolo ho incontrato,
e gli aggettivi con cui vorrei descriverlo sono questi:
solenne,
noioso,
conservatore.
Era l’uomo che il mondo eleggerebbe al Consiglio,
sarebbe nella lista degli invitati al ricevimento di un vescovo,
assomigliava a un artista.
Era il tizio che scrive di musica sui quotidiani
andava in collera quando qualcuno rideva;
era grave su cose senza peso;
dovevi fare attenzione al suo complesso d’inferiorità
perché era consapevole di non essere creativo.
Patrick Kavanagh
Fiorire
Fiorire è profonda responsabilità.
Fiorire - è il fine ...
Colmare il bocciolo - combattere il verme -
ottenere quanta rugiada gli spetta -
regolare il calore - eludere il vento -
sfuggire all'ape ladruncola -
non deludere la natura grande
che l'attende proprio quel giorno -
essere un fiore, è profonda responsabilità.
Fiorire - è il fine ...
Colmare il bocciolo - combattere il verme -
ottenere quanta rugiada gli spetta -
regolare il calore - eludere il vento -
sfuggire all'ape ladruncola -
non deludere la natura grande
che l'attende proprio quel giorno -
essere un fiore, è profonda responsabilità.
(Emily Dickinson)
lunedì 11 aprile 2011
SE
Se riesci a mantenere la calma
quando tutti intorno a te la stanno perdendo...
Se sai aver fiducia in te stesso quando tutti dubitano di te
tenendo, però, nel giusto conto i loro dubbi...
Se sai aspettare senza stancarti dell'attesa
o essendo calunniato non rispondere alle calunnie
o essendo odiato non dare spazio all'odio
senza tuttavia sembrare troppo buono
né parlare troppo da saggio...
Se sai sognare senza fare dei sogni i tuoi padroni...
Se riesci a pensare senza fare dei tuoi pensieri il tuo fine...
Se sai incontrarti con il successo e la sconfitta
e trattare questi due impostori allo stesso modo...
Se riesci a sopportare di sentire la verità che tu hai detto
distorta da imbroglioni
che ne fanno una trappola per ingenui;
e guardare le cose per le quali hai dato la vita
distrutte, e umiliarti a ricostruirle...
Se in un sol colpo puoi rischiare tutto quanto hai avuto dalla vita e perderlo,
e poi ricominciare senza pentirti della tua partita;
Se sai costringere il tuo cuore, i tuoi nervi, i tuoi polsi
a sorreggerti anche quando sono esausti,
e così resistere quando in te non c'è più nulla
tranne la volontà che dice loro: "Resistete"
Se sai parlare con i disonesti senza perdere la tua onestà
o passeggiare con i re senza perdere il comportamento normale...
Se non possono ferirti né i nemici né gli amici troppo premurosi...
Se per te ogni persona conta, ma nessuno troppo...
Se riesci a riempire ogni inesorabile minuto
dando valore a ogni istante che passa...
Tua è la Terra e tutto ciò che vi è in essa
e - quel che più conta - tu sarai un Uomo, figlio mio!
quando tutti intorno a te la stanno perdendo...
Se sai aver fiducia in te stesso quando tutti dubitano di te
tenendo, però, nel giusto conto i loro dubbi...
Se sai aspettare senza stancarti dell'attesa
o essendo calunniato non rispondere alle calunnie
o essendo odiato non dare spazio all'odio
senza tuttavia sembrare troppo buono
né parlare troppo da saggio...
Se sai sognare senza fare dei sogni i tuoi padroni...
Se riesci a pensare senza fare dei tuoi pensieri il tuo fine...
Se sai incontrarti con il successo e la sconfitta
e trattare questi due impostori allo stesso modo...
Se riesci a sopportare di sentire la verità che tu hai detto
distorta da imbroglioni
che ne fanno una trappola per ingenui;
e guardare le cose per le quali hai dato la vita
distrutte, e umiliarti a ricostruirle...
Se in un sol colpo puoi rischiare tutto quanto hai avuto dalla vita e perderlo,
e poi ricominciare senza pentirti della tua partita;
Se sai costringere il tuo cuore, i tuoi nervi, i tuoi polsi
a sorreggerti anche quando sono esausti,
e così resistere quando in te non c'è più nulla
tranne la volontà che dice loro: "Resistete"
Se sai parlare con i disonesti senza perdere la tua onestà
o passeggiare con i re senza perdere il comportamento normale...
Se non possono ferirti né i nemici né gli amici troppo premurosi...
Se per te ogni persona conta, ma nessuno troppo...
Se riesci a riempire ogni inesorabile minuto
dando valore a ogni istante che passa...
Tua è la Terra e tutto ciò che vi è in essa
e - quel che più conta - tu sarai un Uomo, figlio mio!
(R. Kipling)
venerdì 8 aprile 2011
Nelle tue piaghe nascondici...
Salmo 15(16)
1 Miktam. Di Davide.
Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.
2 Ho detto a Dio: «Sei tu il mio Signore,
senza di te non ho alcun bene».
3 Per i santi, che sono sulla terra,
uomini nobili, è tutto il mio amore.
4 Si affrettino altri a costruire idoli:
io non spanderò le loro libazioni di sangue
né pronunzierò con le mie labbra i loro nomi.
5 Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita.
6 Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi,
è magnifica la mia eredità.
7 Benedico il Signore che mi ha dato consiglio;
anche di notte il mio cuore mi istruisce.
8 Io pongo sempre innanzi a me il Signore,
sta alla mia destra, non posso vacillare.
9 Di questo gioisce il mio cuore,
esulta la mia anima;
anche il mio corpo riposa al sicuro,
10 perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro,
né lascerai che il tuo santo veda la corruzione.
11 Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena nella tua presenza,
dolcezza senza fine alla tua destra.
1 Miktam. Di Davide.
Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.
2 Ho detto a Dio: «Sei tu il mio Signore,
senza di te non ho alcun bene».
3 Per i santi, che sono sulla terra,
uomini nobili, è tutto il mio amore.
4 Si affrettino altri a costruire idoli:
io non spanderò le loro libazioni di sangue
né pronunzierò con le mie labbra i loro nomi.
5 Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita.
6 Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi,
è magnifica la mia eredità.
7 Benedico il Signore che mi ha dato consiglio;
anche di notte il mio cuore mi istruisce.
8 Io pongo sempre innanzi a me il Signore,
sta alla mia destra, non posso vacillare.
9 Di questo gioisce il mio cuore,
esulta la mia anima;
anche il mio corpo riposa al sicuro,
10 perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro,
né lascerai che il tuo santo veda la corruzione.
11 Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena nella tua presenza,
dolcezza senza fine alla tua destra.
lunedì 4 aprile 2011
La Parola spezzata per tutti
«E voi, chi dite che io sia?». A questa domanda di Gesù, è Pietro, voce unificante del gruppo degli apostoli, a rispondere: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,15-16). Se ci pensiamo bene, è proprio innanzitutto a questo interrogativo essenziale che il successore di Pietro è chiamato in ogni tempo e ancora oggi a rispondere, facendosi interprete della fede della chiesa tutta. Ed è quanto papa Benedetto XVI fa anche con la seconda parte della sua opera su Gesù di Nazaret. (Libreria Editrice Vaticana, pp. 380, e 20), affrontando la vicenda di Gesù e della fede dei discepoli «dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione». Come già per la prima parte di quest’opera di ampio respiro, l’approccio mira a far emergere quel consenso ecclesiale, quel sensus fidei nel leggere la figura di Gesù che ha attraversato la storia della chiesa e che, nel corso dei secoli e fino ai decenni più recenti, ha saputo far tesoro di studi, commenti, interpretazioni, metodologie anche assai diverse tra loro. Qualcuno si è chiesto se vale la pena che un Papa metta tante energie nello scrivere libri, magari sottraendo tempo al suo «governo», pensato secondo i criteri politici di tutti i governi del mondo. Ma Benedetto XVI fa ciò che gli compete ed è decisivo per il suo ministero petrino: confermare la fede in Gesù Cristo. Questo è l’insegnamento determinante per un papa: perciò un atto deliberatamente non magisteriale come il libro, è tuttavia una confessione di fede fatta dalla chiesa oggi, in sinfonia con la grande tradizione cattolica.
Anche il linguaggio volutamente piano e pedagogico, capace di distillare gli elementi più consolidati dell’esegesi storico-critica e di fonderli con la lettura sapienziale propria della grande tradizione patristica e spirituale, rende quest’opera di Benedetto XVI particolarmente appetibile anche per il largo pubblico: un ragionare discorsivo che viene incontro alla sete di conoscenza e al desiderio di comprensione che è presente anche in molte persone lontane o marginali rispetto alla compagine ecclesiale. Ora, si tratta di un approccio fondamentale proprio per i capitoli conclusivi dei Vangeli, che trattano la passione, morte e risurrezione di Gesù: brani che affrontano da un lato il cuore dell’incontro-scontro tra la figura e la predicazione di Gesù e le istituzioni religiose giudaiche e l’autorità politica romana e, dall’altro, il nodo stesso dell’interpretazione degli scritti del Nuovo Testamento.
Semplice rielaborazione storica di eventi accaduti o non piuttosto riflessione interpretativa che riesce a coniugare l’esperienza vissuta dai primi discepoli con la fede della chiesa nascente? In questo senso alcuni critici dell’opera del papa finiscono per incespicare nelle loro stesse argomentazioni: non si può infatti invocare la «storicità» di alcuni brani evangelici per contrapporla all’interpretazione teologica della prima comunità cristiana di cui risentirebbero altri passaggi neotestamentari.
Non solo lo studioso, ma anche il lettore ordinario sa che l’intero Nuovo Testamento è stato scritto dopo la risurrezione di Gesù o, se si vuole, dopo la predicazione di questo evento sconvolgente ad opera dei primi discepoli. È quindi questo dato «di fede» a costituire da subito il criterio interpretativo di tutta la vicenda storica di Gesù. Questo non significa - e il lavoro di Benedetto XVI lo evidenzia con singolare efficacia - che la dimensione storica non abbia spazio nell’ambito della predicazione e dell’autocomprensione della chiesa, ma piuttosto che «l’incarnazione», il calarsi del Figlio di Dio nella condizione umana abbraccia non solo le debolezze della carne umana ma anche la fragilità di un annuncio non scrutabile esaurientemente alla luce dei soli dati storico-critici.
Per i cristiani non è decisiva innanzitutto la parola «Dio», bensì la conoscenza di Gesù Cristo, colui che ha «narrato Dio», come testimonia il prologo del quarto Vangelo. È attraverso la conoscenza di Gesù Cristo, della sua vita, delle sue parole, della sua passione, morte e risurrezione che si giunge ad aver fede e a conoscere il «Dio che nessuno ha mai visto». Sovente i cristiani, soprattutto nel recente passato erano istruiti intellettualmente su Dio, la sua esistenza, la sua provvidenza: erano credenti in un Dio attorniato da santi con cui avevano maggiore familiarità e di cui conoscevano le «storie», ma pochi tra di loro arrivavano ad avere fede in Gesù Cristo attraverso la conoscenza della sua vita e morte narrate dai Vangeli.
Benedetto XVI con questa sua rilettura di Gesù Cristo apre, forse come mai avvenuto prima, una conoscenza essenziale alla fede dei cristiani che non sono teisti, né in certo senso monoteisti, ma aderenti a un Dio unico che è una comunione di amore e che si è rivelato pienamente e definitivamente nella vita umana di Gesù Cristo suo Figlio.
La fede cristiana, allora, non è meno solida per il fatto di fondarsi non su una prova incontrovertibile - almeno secondo i criteri moderni - della risurrezione di Gesù, bensì sulla testimonianza di uomini e donne semplici ma divenuti «affidabili» per quanti ne hanno ascoltato la predicazione. Ammettere che la fede si basa non sull’aver visto o toccato con mano alcunché, bensì sulle umanissime parole e sui gesti concreti di persone «normali» dotate di risorse intellettuali e di patrimoni culturali più o meno ricchi, significa compiere il primo passo nella comprensione che la rivelazione, l’invito pressante all’amore rivolto da Dio al suo popolo e portato a compimento nella vita di Gesù e nella sua morte per gli altri «non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire?... Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica (Dt 30,12-14)».
Con il suo Gesù di Nazaret, Benedetto XVI ha reso «vicina» questa parola.
ENZO BIANCHI
fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 2 aprile
Anche il linguaggio volutamente piano e pedagogico, capace di distillare gli elementi più consolidati dell’esegesi storico-critica e di fonderli con la lettura sapienziale propria della grande tradizione patristica e spirituale, rende quest’opera di Benedetto XVI particolarmente appetibile anche per il largo pubblico: un ragionare discorsivo che viene incontro alla sete di conoscenza e al desiderio di comprensione che è presente anche in molte persone lontane o marginali rispetto alla compagine ecclesiale. Ora, si tratta di un approccio fondamentale proprio per i capitoli conclusivi dei Vangeli, che trattano la passione, morte e risurrezione di Gesù: brani che affrontano da un lato il cuore dell’incontro-scontro tra la figura e la predicazione di Gesù e le istituzioni religiose giudaiche e l’autorità politica romana e, dall’altro, il nodo stesso dell’interpretazione degli scritti del Nuovo Testamento.
Semplice rielaborazione storica di eventi accaduti o non piuttosto riflessione interpretativa che riesce a coniugare l’esperienza vissuta dai primi discepoli con la fede della chiesa nascente? In questo senso alcuni critici dell’opera del papa finiscono per incespicare nelle loro stesse argomentazioni: non si può infatti invocare la «storicità» di alcuni brani evangelici per contrapporla all’interpretazione teologica della prima comunità cristiana di cui risentirebbero altri passaggi neotestamentari.
Non solo lo studioso, ma anche il lettore ordinario sa che l’intero Nuovo Testamento è stato scritto dopo la risurrezione di Gesù o, se si vuole, dopo la predicazione di questo evento sconvolgente ad opera dei primi discepoli. È quindi questo dato «di fede» a costituire da subito il criterio interpretativo di tutta la vicenda storica di Gesù. Questo non significa - e il lavoro di Benedetto XVI lo evidenzia con singolare efficacia - che la dimensione storica non abbia spazio nell’ambito della predicazione e dell’autocomprensione della chiesa, ma piuttosto che «l’incarnazione», il calarsi del Figlio di Dio nella condizione umana abbraccia non solo le debolezze della carne umana ma anche la fragilità di un annuncio non scrutabile esaurientemente alla luce dei soli dati storico-critici.
Per i cristiani non è decisiva innanzitutto la parola «Dio», bensì la conoscenza di Gesù Cristo, colui che ha «narrato Dio», come testimonia il prologo del quarto Vangelo. È attraverso la conoscenza di Gesù Cristo, della sua vita, delle sue parole, della sua passione, morte e risurrezione che si giunge ad aver fede e a conoscere il «Dio che nessuno ha mai visto». Sovente i cristiani, soprattutto nel recente passato erano istruiti intellettualmente su Dio, la sua esistenza, la sua provvidenza: erano credenti in un Dio attorniato da santi con cui avevano maggiore familiarità e di cui conoscevano le «storie», ma pochi tra di loro arrivavano ad avere fede in Gesù Cristo attraverso la conoscenza della sua vita e morte narrate dai Vangeli.
Benedetto XVI con questa sua rilettura di Gesù Cristo apre, forse come mai avvenuto prima, una conoscenza essenziale alla fede dei cristiani che non sono teisti, né in certo senso monoteisti, ma aderenti a un Dio unico che è una comunione di amore e che si è rivelato pienamente e definitivamente nella vita umana di Gesù Cristo suo Figlio.
La fede cristiana, allora, non è meno solida per il fatto di fondarsi non su una prova incontrovertibile - almeno secondo i criteri moderni - della risurrezione di Gesù, bensì sulla testimonianza di uomini e donne semplici ma divenuti «affidabili» per quanti ne hanno ascoltato la predicazione. Ammettere che la fede si basa non sull’aver visto o toccato con mano alcunché, bensì sulle umanissime parole e sui gesti concreti di persone «normali» dotate di risorse intellettuali e di patrimoni culturali più o meno ricchi, significa compiere il primo passo nella comprensione che la rivelazione, l’invito pressante all’amore rivolto da Dio al suo popolo e portato a compimento nella vita di Gesù e nella sua morte per gli altri «non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire?... Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica (Dt 30,12-14)».
Con il suo Gesù di Nazaret, Benedetto XVI ha reso «vicina» questa parola.
ENZO BIANCHI
fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 2 aprile
Civiltà Cattolica sugli hacker
"Ormai è convinzione comune che gli hacker siano sabotatori, se non veri e propri criminali informatici. Parlare di etica hacker può allora suonare persino ironico". In un articolo dal titolo "Etica hacker e visione cristiana" che appare sul nuovo fascicolo della "Civiltà Cattolica", l'autorevole rivista quindicinale della Compagnia di Gesù, si cerca di fare chiarezza sulla storia degli hacker, la loro vera identità e la loro 'filosofia'.
Così padre Antonio Spadaro, critico letterario e specialista di nuove tecnologie informatiche per conto della redazione del periodico gesuita, le cui bozze vengono riviste dalla Segreteria di Stato della Santa Sede, distingue gli hacker chiaramente dai cracker, operatori di illegalità. Indagando i modelli di vita e di ricerca intellettuale hacker, fondati sulla creatività e la condivisione, padre Spadaro ne discute la compatibilità con una visione cristiana della vita.
"Senza paragonare indebitamente comunità hacker e comunità cristiana - sostiene padre Spadaro - i cristiani e gli hacker oggi, in un mondo votato alla logica del profitto, hanno comunque molto da darsi, come dimostra del resto anche l'esperienza degli hacker che fanno della loro fede un impulso del loro lavoro creativo".
Il termine hacker, ricorda il gesuita Spadaro, è ormai entrato nel vocabolario comune grazie al fatto che giornali e televisioni, ma anche film e romanzi, lo hanno diffuso ampiamente
riferendolo a un'ampia serie di fenomeni quale violazione di segreti, di codici e password, di sistemi informatici protetti e così via.
Nel caso di Wikileaks si è addirittura parlato di "hacker all'attacco del mondo", identificando in Julian Paul Assange, il suo fondatore, l'"hacker incendiario del web". In generale, dunque, si legge nell'articolo della "Civiltà Cattolica" si è imposto "il luogo comune per cui il termine hacker viene associato a persone molto esperte nel riuscire a entrare in siti protetti e a sabotarli o, addirittura, a veri e propri criminali informatici".
Parlare di etica hacker "può allora suonare persino ironico".
Perché allora se ne occupa la seriosissima rivista della Compagnia di Gesù? Sebbene ormai i media abbiamo imposto questa immagine degli hacker, in realtà i cosiddetti "pirati informatici" hanno un altro nome: cracker. Il termine hacker invece di per sé individua una figura molto più complessa e costruttiva, argomenta padre Spadaro.
"Gli hackers costruiscono le cose, i crackers le rompono (hackers build things, crackers break them)", afferma una delle citazioni riportate nell'articolo della "Civiltà Cattolica". Hacker dunque è colui, spiega la rivista dei Gesuiti, che "si impegna ad affrontare sfide intellettuali per aggirare o superare creativamente le limitazioni che gli vengono imposte nei propri ambiti d'interesse".
Per lo più il termine hacker si riferisce a esperti di informatica, ma di per sé, sostiene padre Spadaro "può essere esteso a persone che vivono in maniera creativa molti altri aspetti della loro vita".
"Quella hacker è, insomma, una sorta di 'filosofia' di vita, di atteggiamento esistenziale, giocoso e impegnato, che spinge alla creatività e alla condivisione, opponendosi ai modelli di controllo, competizione e proprietà privata. Intuiamo dunque come parlando in modo proprio degli hacker - aggiunge il gesuita - siamo di fronte non a problemi di ordine penale, ma a una visione del lavoro umano, della conoscenza e della vita. Essa pone interrogativi e sfide quanto mai attuali".
Non è difficile, pertanto, sostiene l'articolo della "Civiltà Cattolica", riconoscere l'intuizione di una "vita beata" nel codice genetico della visione hacker della vita, l'intuizione che l'essere umano è chiamato a "un'altra vita, a una realizzazione piena e compiuta della propria umanità".
Scrive sempre padre Spadaro: "Ovviamente l'hacker non è l'uomo dell'ozio e del dolce far niente. Al contrario è molto attivo, persegue le proprie passioni e vive di uno sforzo creativo e di una conoscenza che non ha mai fine. Tuttavia sa che la sua umanità non si realizza in un tempo organizzato rigidamente, ma nel ritmo flessibile di una creatività che deve diventare la misura di un lavoro veramente umano, quello che meglio corrisponde alla natura dell'uomo. Tom Pittman più volte si è espresso sull'illogicità dell'ateismo e si è professato cristiano, ma anche altre esperienze dimostrano che tra fede ed etica hacker si possono creare sintonie".
"Ad esempio - aggiunge - il linguaggio di programmazione Perl, creato nel 1987 dall'hacker Larry Wall, cristiano evangelico, è sì l'acronimo di Practical Extraction and Report Language ma in origine si chiamava Pearl e deve il suo nome alla 'perla di gran valore' trovata la quale un mercante vende tutto pur di comprarla, come racconta il Vangelo di Matteo". Conclude padre Spadaro: "Una tale etica hacker può acquistare persino risonanze profetiche per il mondo d'oggi votato alla logica del profitto, per ricordare che il cuore umano anela a un mondo in cui regni l'amore, dove i doni siano condivisi".
http://www.repubblica.it/tecnologia/2011/04/03/news/civilt_cattolica_rivaluta_gli_hacker_hanno_fede_positiva_nell_informatica-14454606/
Così padre Antonio Spadaro, critico letterario e specialista di nuove tecnologie informatiche per conto della redazione del periodico gesuita, le cui bozze vengono riviste dalla Segreteria di Stato della Santa Sede, distingue gli hacker chiaramente dai cracker, operatori di illegalità. Indagando i modelli di vita e di ricerca intellettuale hacker, fondati sulla creatività e la condivisione, padre Spadaro ne discute la compatibilità con una visione cristiana della vita.
"Senza paragonare indebitamente comunità hacker e comunità cristiana - sostiene padre Spadaro - i cristiani e gli hacker oggi, in un mondo votato alla logica del profitto, hanno comunque molto da darsi, come dimostra del resto anche l'esperienza degli hacker che fanno della loro fede un impulso del loro lavoro creativo".
Il termine hacker, ricorda il gesuita Spadaro, è ormai entrato nel vocabolario comune grazie al fatto che giornali e televisioni, ma anche film e romanzi, lo hanno diffuso ampiamente
riferendolo a un'ampia serie di fenomeni quale violazione di segreti, di codici e password, di sistemi informatici protetti e così via.
Nel caso di Wikileaks si è addirittura parlato di "hacker all'attacco del mondo", identificando in Julian Paul Assange, il suo fondatore, l'"hacker incendiario del web". In generale, dunque, si legge nell'articolo della "Civiltà Cattolica" si è imposto "il luogo comune per cui il termine hacker viene associato a persone molto esperte nel riuscire a entrare in siti protetti e a sabotarli o, addirittura, a veri e propri criminali informatici".
Parlare di etica hacker "può allora suonare persino ironico".
Perché allora se ne occupa la seriosissima rivista della Compagnia di Gesù? Sebbene ormai i media abbiamo imposto questa immagine degli hacker, in realtà i cosiddetti "pirati informatici" hanno un altro nome: cracker. Il termine hacker invece di per sé individua una figura molto più complessa e costruttiva, argomenta padre Spadaro.
"Gli hackers costruiscono le cose, i crackers le rompono (hackers build things, crackers break them)", afferma una delle citazioni riportate nell'articolo della "Civiltà Cattolica". Hacker dunque è colui, spiega la rivista dei Gesuiti, che "si impegna ad affrontare sfide intellettuali per aggirare o superare creativamente le limitazioni che gli vengono imposte nei propri ambiti d'interesse".
Per lo più il termine hacker si riferisce a esperti di informatica, ma di per sé, sostiene padre Spadaro "può essere esteso a persone che vivono in maniera creativa molti altri aspetti della loro vita".
"Quella hacker è, insomma, una sorta di 'filosofia' di vita, di atteggiamento esistenziale, giocoso e impegnato, che spinge alla creatività e alla condivisione, opponendosi ai modelli di controllo, competizione e proprietà privata. Intuiamo dunque come parlando in modo proprio degli hacker - aggiunge il gesuita - siamo di fronte non a problemi di ordine penale, ma a una visione del lavoro umano, della conoscenza e della vita. Essa pone interrogativi e sfide quanto mai attuali".
Non è difficile, pertanto, sostiene l'articolo della "Civiltà Cattolica", riconoscere l'intuizione di una "vita beata" nel codice genetico della visione hacker della vita, l'intuizione che l'essere umano è chiamato a "un'altra vita, a una realizzazione piena e compiuta della propria umanità".
Scrive sempre padre Spadaro: "Ovviamente l'hacker non è l'uomo dell'ozio e del dolce far niente. Al contrario è molto attivo, persegue le proprie passioni e vive di uno sforzo creativo e di una conoscenza che non ha mai fine. Tuttavia sa che la sua umanità non si realizza in un tempo organizzato rigidamente, ma nel ritmo flessibile di una creatività che deve diventare la misura di un lavoro veramente umano, quello che meglio corrisponde alla natura dell'uomo. Tom Pittman più volte si è espresso sull'illogicità dell'ateismo e si è professato cristiano, ma anche altre esperienze dimostrano che tra fede ed etica hacker si possono creare sintonie".
"Ad esempio - aggiunge - il linguaggio di programmazione Perl, creato nel 1987 dall'hacker Larry Wall, cristiano evangelico, è sì l'acronimo di Practical Extraction and Report Language ma in origine si chiamava Pearl e deve il suo nome alla 'perla di gran valore' trovata la quale un mercante vende tutto pur di comprarla, come racconta il Vangelo di Matteo". Conclude padre Spadaro: "Una tale etica hacker può acquistare persino risonanze profetiche per il mondo d'oggi votato alla logica del profitto, per ricordare che il cuore umano anela a un mondo in cui regni l'amore, dove i doni siano condivisi".
http://www.repubblica.it/tecnologia/2011/04/03/news/civilt_cattolica_rivaluta_gli_hacker_hanno_fede_positiva_nell_informatica-14454606/
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