“Annunciazione,
annunciazione”. Chi di noi all’udire questa semplice ripetizione non ritorna
immediatamente con la memoria al celeberrimo sketch del trio La Smorfia? Forse
subito ci ricordiamo di quella scenografia approssimativa, di quella donna dai
riccioli nerissimi e dell’espressione al tempo stesso esilarante ed amara
disegnata come una maschera dal talento naturale di Massimo Troisi, o
dell’improbabile arcangelo Gabriele mezzo cieco e dalla posticcia chioma bionda
interpretato dal barbuto Lello Arena, o ancora da un giovanissimo Enzo Decaro
ora cherubino addetto alla creazione dell’atmosfera celestiale e ora nevrotico
Pilato che insiste nel suo ostinato tentativo di “lavarsene le mani”.
Chi ha visto almeno
una volta quella rappresentazione, ritenuta stupidamente da alcuni lesiva della
memoria di una delle pagine più poetiche e teologicamente intense della nostra
storia di fede, leggendo queste prime righe forse starà già sorridendo e
sentendo nelle orecchie il frastuono della tromba e il tonfo dei piedi sbattuti
a terra del maldestro Gabriele. Ma oltre il sapiente intreccio di equivoci, di
personaggi da commedia dell’arte, di maschere tanto moderne da sembrare quasi
un affresco neorealista, di tempi comici meravigliosamente sincronizzati, c’è
qualche ulteriore plausibile chiave di lettura? A me piacerebbe provare a fare
un piccolo esercizio in tal senso, provando a tirare fuori dal testo alcuni
interessanti spunti che a prima vista rischiano di passare inosservati, ma che
proprio perché restano come sottotraccia forse stimolano la curiosità di chi
non si limita a subire passivamente un’opera creativa ma lasciandosi
interrogare da essa la interroga a sua volta.
Ma andiamo per
ordine. Troisi esordisce prima ancora che con le parole con i suoi gesti, con
l’espressione del suo viso, dimessa, timida, gli occhi bassi verso il pavimento
come chi sembra volersi giustificare per la propria stessa presenza nel mondo.
Si guarda intorno e inizia a raccontare di sé, della propria casa, casa di poveri
pescatori, ma soprattutto casa “umile ma
onesta”; parole che non si limitano a diventare uno dei tanti tormentoni
dello sketch, ma nel loro essere espresse con una fermezza che sembra stridere
con la timidezza del personaggio ci vogliono dire della dignità di chi le
pronuncia. Non a caso la parola onestà ha la stessa radice dell’onore. L’onestà
di quella casa non è quindi una semplice aderenza alle leggi stabilite, che
pure si evincerà più avanti nel racconto della brava donna, ma è un legame
viscerale ad un onore che neanche la povertà più nera può sfregiare. E qual è
la sorgente di quell’onore incrollabile se non proprio l’umiltà, qualità troppo
spesso confusa con la sottomissione, la remissività o peggio con la codardia,
ma che sappiamo invece essere legata all’humus, alla terra, in altre parole
all’adamà, quella terra da cui siamo stati tratti. Nel suo senso più profondo
allora essere umili non significa nient’altro che riscoprire la nostra vera
identità di uomini, trovare il nostro posto nella creazione. A questo punto non
può che tornarci al cuore “l’umiltà della serva del Signore” che forse siamo
abituati a cercare in atteggiamenti austeri, solenni, talvolta cupi, ma che
possiamo invece sperimentare in ogni casa “umile ma onesta” che abbiamo avuto
la fortuna di visitare e che assomiglia magari un po’ anche a questa sullo
sfondo della quale ci stiamo per fare quattro sane risate.
Gente onesta quindi
abita questa casa dove siamo appena entrati. Non solo la donna che con
l’orgoglio della propria povertà ci pone drammaticamente di fronte alla nostra
scellerata esigenza di apparire. “Ci sta” un altro abitante silenzioso ed
invisibile, il marito della donna. Trovo molto interessante che il primo
aggettivo che questa utilizza per definire il marito sia “un lavoratore”. Il
marito non è bello, non è una brava persona, un buon marito o un bravo padre di
famiglia, è prima di tutto un lavoratore. Ciò che lo identifica, che lo
racconta come uomo prima di ogni altra caratteristica o qualifica è quella
parola: un lavoratore.
Fermiamoci allora
un attimo per una prima riflessione. Chi è questo marito/lavoratore? Proviamo a
cercare qualche indizio. Di lui non conosciamo il nome, non conosciamo il
volto, sappiamo fin qui solo della sua onestà e della sua dedizione al lavoro.
Durante tutto lo sketch ne sentiremo parlare molto, ma continueremo a non
vederlo. Appariranno angeli, cherubini, alti funzionari romani, re, sentiremo
perfino indirettamente la voce del “Signore” ma lui si terrà lontano dalla luce
dei riflettori, dal centro della scena. Sarà una presenza silenziosa, discreta.
Proprio come la presenza di Giuseppe, quest’uomo di cui non conosciamo l’età,
che in quattro vangeli non pronuncia neanche una parola e di cui conosciamo
solo la giustizia e l’amore paziente e operante. E che dire del fatto che oltre
ad essere ricordato come padre nella festività del 19 marzo, il buon Giuseppe
venga anche ricordato proprio come “Lavoratore” nella festa del 1° maggio, assumendo
il ruolo di simbolo e protettore di ogni uomo che nella dignità del lavoro trova
significato e sapore della propria vita? Eppure anche in quell’occasione rimane
fedele alla sua vocazione, sparendo dopo quell’unico giorno a lui dedicato per
lasciare il posto ad un intero mese di festeggiamenti in onore della sua amata
sposa.
Capiremo molto
prima di Gabriele che quella donna non è la donna dell’Annunciazione, ma non
possiamo non rimanere convinti nel nostro cuore che quell’uomo è uno dei tanti
Giuseppe della Storia, un uomo capace di rinunciare a sé non semplicemente
sparendo, ma accettando di non apparire nemmeno una volta.
Ma torniamo al
nostro lavoratore e alla sua vita sbattuta in mezzo al mare, in mezzo alle onde
che vanno e che vengono. Una vita pericolosa, che impone alla povera moglie
continue preoccupazioni e angosce ad ogni tuono. E se la barca che torna sola
questa volta è la barca di mio marito? Questa domanda, posta in maniera così
semplice e cruda tanto da provocarci anche un sorriso può sembrare così lontana
da noi. Anzi, tutta questa situazione sembra uscita da un racconto verista di
metà ottocento. Trosi, Arena e Decaro hanno scritto e interpretato questo testo
alla fine degli anni ’70 del novecento, ma oggi, nel 2013, ha ancora senso che
una moglie si interroghi riguardo il marito che esce per andare al lavoro chiedendosi:
“tornerà, non tornerà”? Molti professori sono sicuramente in grado di
rispondere meglio di me a questa domanda, ma credo che in un paese che conta
circa 1000 morti all’anno sul lavoro, limitandoci ai soli dati ufficiali, una
domanda come questa sia tremendamente attuale. In particolare credo che come
cristiani che amano vantarsi delle proprie battaglie in difesa della vita siamo
maggiormente chiamati ad un presidio ed una vigilanza senza sconti sul tema
della sicurezza sul posto di lavoro. Specialmente negli ultimi anni nei quali
assistiamo ad una dinamica che non esito a definire diabolica, nel senso
letterale, perché tende a dividere, separare, mettere in conflitto la sicurezza
e la competitività, avvalorando la tesi che questa si raggiunge solo con
l’abbattimento dei costi qualunque essi siano. Un po’ come dire, con le dovute
proporzioni, che per alleggerire la spesa pubblica è necessario smettere di
costruire asili e, perché no, magari anche smettere di fare figli.
Proseguiamo ancora
un po’ nella nostra analisi. Nel momento di preoccupazione, di angoscia, di
sconforto della donna ecco che si fa presente l’arcangelo messaggero, la voce
del “Signore”. E quali sono le caratteristiche dell’arcangelo? Ci appare mezzo
cieco, sembra non rendersi conto di ciò che accade e di dove si trova, dice
qualcosa che ha poco senso, è totalmente fuori contesto e lascia la donna
infastidita e perplessa. Per di più non ascolta una parola di ciò che la donna
gli dice e tira dritto per la sua strada. Sarebbe molto interessante ragionare
su questi elementi e pur non essendo il tema di questa riflessione mi piaceva
lasciarli lì sullo sfondo affinché ognuno se ne sentisse provocato.
Questa non è che la
prima delle incursioni che interromperanno la narrazione della donna. Non ci
soffermeremo però su queste incursioni, per quanto certamente divertenti e
significative, bensì proveremo a focalizzare ancora la nostra attenzione sul
“lavoratore”. Aver esposto le proprie preoccupazioni sulla pericolosità del
lavoro del marito permette alla donna di introdurci in una seconda fase del
racconto, quello della ricerca di un nuovo lavoro, di quell’occasione che possa
migliorare la loro attuale condizione. E qui a mio parere viene fuori il vero
capolavoro dell’autore/attore di San Giorgio a Cremano.
Troisi ci
accompagna per mano indossando stavolta i panni del “povero cristo” che si
mette alla ricerca di un lavoro. Nessuna pretesa, vuole solo un lavoro, o
meglio un lavoro solo, senza ulteriori aggettivi o caratterizzazioni. È curioso
infatti, secondo me, che la sua ricerca non si imbatta in assenza di lavoro, ma
in lavori “deformati”. Quanti giovani più o meno qualificati sperimentano oggi
un mercato del lavoro quantomeno bizzarro, nel quale è evidente che la
necessità di “skill”, come si usa dire oggi, esiste, è anche piuttosto urgente,
e nel quale però la parola d’ordine è flessibilità, che troppo spesso è un velo
per coprire la malizia di chi ti chiede di accettare un compromesso al ribasso.
Chi crede che questa mia considerazione sia troppo semplicistica provi a
pensare a quanti giovani e meno giovani si trovano ad avere un contratto di
collaborazione a progetto e si vedono invece imposti orari e modalità di lavoro
proprie del lavoro subordinato, il che dovrebbe rappresentare una contraddizione
in termini ma che è di fatto una ignobile prassi sin dall’introduzione della
legge 30/2003, nota per motivi di propaganda come legge Biagi.
Ma torniamo al
testo. Troisi ci pone di fronte alcune delle deformazioni del lavoro tipiche di
quegli anni, ma scopriremo nostro malgrado che da allora queste deformazioni
non solo non sono sparite, ma si sono a loro modo evolute ed adattate alla
nuova configurazione della società moderna e globalizzata. Procediamo ancora
una volta lasciandoci guidare dai tempi comici e dallo snodarsi della vicenda
del “lavoratore”.
La prima
deformazione è il lavoro minorile.
Qui Troisi affronta l’argomento in maniera apparentemente leggera, ironica, ma
risulta evidente la sua critica feroce. Possiamo ritrovare questa tecnica nella
produzione del trio La Smorfia anche ad altre tematiche delicate, come la
questione della mortalità infantile ancora molto attuale in quegli anni a
Napoli. Come anticipavo ci appare subito di fronte agli occhi una
contraddizione. Il lavoro di per sé ci sarebbe ma è minorile, ovvero in qualche
modo vincolato non alle competenze necessarie ma all’età di chi lo compie.
Immediatamente siamo portati a pensare a quanti dei nostri indumenti, delle
nostre scarpe e spesso anche dei nostri prodotti alimentari e tecnologici
provengono da produzioni più o meno lontane dove lo sfruttamento del lavoro
minorile è massiccio e indiscriminato e già questo basterebbe per stimolare in
noi una seria riflessione sulle nostra abitudini di consumo. Ma oltre questo
aspetto credo che ragionare sullo scandalo del lavoro minorile ci possa portare
ad un ulteriore interrogativo. Esiste una relazione così stretta tra età e
capacità di svolgere un determinato lavoro? In prima battuta ci verrebbe da
dire di sì, un ragazzino ancora acerbo o un anziano debilitato non possono
certo fare il manovale o il chirurgo. Ma se spostiamo la nostra attenzione sul
tema della ricollocazione di chi perde il lavoro intorno ai 45-50 anni? Quanto
spesso abbiamo sentito storie di persone che non sono più così giovani da
riciclarsi né così vecchi da andare in pensione? Non parliamo di incapaci o di
inabili, ma di donne e uomini che hanno l’unica colpa di avere un’età che non
rispetta i parametri di un mercato del lavoro dove ancora una volta un costo
basso conta più di una professionalità qualificata. E allora l’iperbole
disegnata da Troisi descrivendo i suoi due figli di 18 e 20 anni ormai fuori da
un’età lavorativa che si ferma a 12 potrebbe non sembrarci più così assurda.
La seconda
deformazione è il lavoro nero, in
particolare il lavoro nero femminile.
Di nuovo ci si rivolge ad una categoria che si ritiene di poter costringere a
condizioni ben al di fuori del diritto del lavoro. Sarebbe fin troppo facile
qui commentare come larga parte del sud Italia è affetto dalla piaga del lavoro
nero, che in alcune regioni è molto più diffuso di quello regolare e
rappresenta l’unica possibilità per tantissime persone, non solo giovani, di
avere un reddito e spinge molti di essi ad accettare ricatti tra i quali il
voto di scambio è solo uno dei più sdoganati. Qui faccio una piccola
digressione; quanti analisti politici o semplici intellettuali che pretendono
di conoscere e commentare i fenomeni socio politici sanno non tanto quanto
costa un chilo di pane, ma quanto costa oggi, in molti paesini del sud, un
voto? In Campania usiamo l’espressione “segreto di Pulcinella” per definire
qualcosa che tutti sanno ma tutti fanno finta di non sapere. Ebbene uno dei più
evidenti segreti di Pulcinella è che oggigiorno bastano 20 euro, magari in
buoni benzina o in mozzarelle di Bufala, per comprarsi il voto di una persona.
Ma chiediamoci, questo avviene solo a causa della crisi di civismo che è più
devastante di quella economica? O qualche responsabilità ce l’ha anche la resa
definitiva delle istituzioni, plasticamente descritta nell’immagine della spugna
gettata con gran dignità propostaci magistralmente da Fabrizio De Andrè nella
canzone Don Raffaè? Questa drammatica perdita di credibilità e forza dello
stato sociale e delle sue conquiste in tema di diritto del lavoro si riverbera
in un modo di cui forse non riusciamo a cogliere la pericolosità.
Si diceva però
della precisazione sul lavoro nero femminile.
Anche qui si potrebbe aprire tutta una serie di riflessioni, ma mi limiterò a
porre l’attenzione su alcuni elementi. Oggi va di moda parlare di rispetto o
addirittura valorizzazione delle differenze, in particolare quelle di genere,
eppure abbiamo un divario salariale tra uomini e donne di circa il 25% e un
rapporto tra il numero di donne e uomini in posizioni di potere (ad esempio nei
consigli di amministrazione) per certi versi inquietante. E qui potremmo dire
che è perché siamo un paese tradizionalista, legato all’idea della centralità della
famiglia e del ruolo della donna come “angelo del focolare”. Chissà, forse è
per questo che oggi in Italia al di là dei proclami è una vera impresa per una
donna, anche per chi ha un contratto regolare, conciliare maternità e lavoro. Solo
per fare alcuni esempi: non esiste la cultura degli asili aziendali, il tempo
pieno delle scuole è tra i primi servizi che vengono tagliati, gli assegni
familiari sono talmente ridicoli da sembrare uno scherzo di cattivo gusto. Per
contro però esiste una prassi consolidata fatta di domande indiscrete ai
colloqui (del tipo: “lei è sposata? Ha intenzione di avere figli a breve?”,
poco importa se hai due lauree e un master in business administration, mi
interessa solo sapere se il tuo utero è più ambizioso di te), contratti non
rinnovati a donne anche solo in odore di gravidanza o quando va bene
marginalizzazione delle mamme lavoratrici.
Ma il nostro buon
lavoratore non si arrende, è determinato e passa oltre. In fondo lui “vuole nu
bene ‘e pazzo” alla moglie, e diamine la sua casa è umile ma onesta! Incontra
così la terza deformazione, il lavoro a
cottimo. E qui davvero chapeau alla verve comica di Troisi, che quasi
esasperato commenta: possibile che a Napoli “solo lavoro” non si trova? Deve
sempre avere un’altra parola accanto? Ma al di là di questo, qualcuno potrebbe
pensare che questa in fondo non è proprio una deformazione del lavoro. Non è
infatti il legislatore stesso a prevedere, sebbene sotto precisi vincoli, la
possibilità di lavoro retributo a cottimo alternativa al classico lavoro
retribuito a tempo? Il ragionamento su questo punto sembrerebbe lapalissiano,
ma basta guardarsi un po’ intorno per rendersi conto di quanti lavoratori
formalmente retribuiti a tempo sono di fatto retribuiti a cottimo. Mi viene in
mente al riguardo un altro sketch più recente, di un artista molto diverso da Troisi,
ovvero Ascanio Celestini, il quale in uno dei suoi spettacoli descrivendo il
lavoro in un call center espone in maniera semplice e drammaticamente chiara
come il guadagno di un operatore di call center può essere determinato sulla
base del tempo della telefonata dell’utente, fino però ad un guadagno massimo
di 85 centesimi lordi per telefonata. Sono assolutamente certo che da un punto
di vista legale tutto questo sia corretto, ma noi che siamo cristiani sappiamo
che la giustizia supera la legalità e non possiamo non chiederci quanto sia
giusto riconoscere il valore del lavoro sulla base del numero di telefonate
ricevute da un operatore di call center inbound. In tutta franchezza, questo mi
sembra un modo fin troppo furbo di scaricare sul lavoratore quei rischi di
impresa che dovrebbero riguardare il solo datore di lavoro, senza però
riconoscergli i benefici connessi.
Ma veniamo
all’ultima deformazione descritta da Troisi. Il nostro eroe continua a non
arrendersi, e finalmente sembra trovare qualcosa di adatto a lui, ma ancora una
volta non un lavoro, bensì un lavoretto.
Nella sua ingenuità, che spesso si accompagna con l’umiltà e l’onestà proprie
di quella casa, il lavoratore crede di essersi guadagnato dopo tante peripezie
un po’ di fortuna. Per eseguire un lavoretto, lo dice la parola stessa, serve
meno fatica, in altre parole si lavora di meno. Per un pescatore abituato a
lavorare di notte questa prospettiva non può che essere allettante. Scopriamo
però molto presto che dietro a quel diminutivo si nasconde tutt’altro. Per
capirlo bisogna guardare la mano (nun guardate a mme, guardate ‘a mano)! Qui
l’osservatore attento può cogliere la più poetica e precisa descrizione
dell’indole del nostro personaggio. Già, perché al di là dell’ingenuità se
proviamo a contemplare la scena capiamo perché il nostro lavoratore non ha
immediatamente inteso l’allusione del suo interlocutore. Questo brav’uomo è
abituato a guardare in faccia le persone, a confrontarsi con tutti alla pari
nonostante il suo bisogno di lavorare. Non abbassa lo sguardo, ecco perché non
può vedere il movimento ambiguo della mano! Ecco perché appena afferra la
natura del lavoretto che gli si sta proponendo risponde con forza e senza mezzi
termini, quasi alla maniera paolina, NO.
Questa schiena
dritta che sostiene la figura umile ma onesta di un uomo qualunque che si
preoccupa di dare un futuro a sua moglie e i suoi figli è in fin dei conti
l’incarnazione dell’antieroe troisiano, il cui riscatto non sta nella scalata
sociale o nella rivoluzione armata e violenta, ma nella fedeltà incrollabile ai
suoi principi e al suo universo di valori, che gli permette, pur senza una nota
di amarezza, di nuotare controcorrente, di rifiutare la comoda giustificazione
del “così fan tutti”, anche quando il prezzo da pagare è la condanna senza
appello alla disoccupazione.
In conclusione,
credo che ognuno di noi abbia molto da imparare da questa scena apparentemente
così allegra e così ingiustamente derubricata a cabaret di fine anni settanta. In
fondo penso che l’assenza di un nome e di un volto per questo personaggio sia
come sempre invito ad assumerne il ruolo, a sentire in noi stessi le sue
mozioni interiori, le sue preoccupazioni, i suoi desideri. Ma non solo, è
invito a guardare in esso il nostro fratello che anche per colpa nostra, o per
nostra omissione, è costretto a sentirsi non più un uomo, ma un ingranaggio
come un altro del sistema produttivo. Se proviamo infatti a ripercorrere
velocemente le quattro deformazioni analizzate in questa riflessione, esse
hanno tutte una radice comune, ovvero la strumentalizzazione dell’uomo,
letteralmente la sua riduzione a strumento, in particolare strumento di
profitto. Nessuno di noi si senta quindi esente dal rischio sempre attuale di “servirsi
dell’altro invece di servire l’altro” e tenga sempre nel cuore le parole della
lettera di Giacomo:
Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle
vostre terre, e che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori
sono giunte agli orecchi del Signore onnipotente.
Giorgio Catena - Coordinatore CVX "Oscar Romero" - Sant'Arpino